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Movimenti di Lotta per la Salute, l'Ambiente, la Pace e la Nonviolenza
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Il senno del 26 aprile può essere più utile di quello del 25. Si è vista una splendida manifestazione di popolo a Milano (nella foto Ansa di apertura, di Mourad Balti Touati) con una decina di nordafricani che si sono presi i titoli insultando gli ebrei. Non si è visto il semplice gesto che sarebbe bastato, ha scritto Aldo Cazzullo nell’editoriale di oggi. Bastato a rendere la festa della Liberazione dal fascismo meno, o non più, «divisiva», come ama dire chi non l’ha mai amata e continua a non amarla anche dalle posizioni di massimo potere. Il senno del 26 aprile porta allora a cercare di ricordare cosa sia stata questa festa nella nostra storia. Ieri sera tardi, a cavallo tra 25 e 26, ne ha parlato a «Tra poco in edicola» su Radio1 Giovanni Orsina, l’intellettuale italiano più capace di decifrare l’evoluzione della destra senza le tossine del pregiudizio e della spocchia che si addebitano indistintamente all’intellighenzia di sinistra. Lo storico della Luiss ha detto in sostanza che la festa è stata sempre tiepida, fin dal dopoguerra e dagli anni ‘50, perché al potere a trazione democristiana non conveniva riscaldarla: «In realtà è una specie di gioco degli specchi. In che senso? Nel senso che questa festa, nel corso degli anni, è una festa che sempre più è stata “richiamata” da sinistra. Avveniva addirittura negli anni ‘50. Già allora la parte moderata del Paese, parliamo ovviamente di antifascisti ed eredi dell’antifascismo, parliamo dei liberali, dei democristiani, cercavano di non enfatizzare troppo questa ricorrenza, dandole un celebrazione molto liturgica, molto istituzionale ma cercando di non attribuirle un valore politico troppo forte. Perché? Naturalmente perché negli anni ‘50 festeggiare la Liberazione significava di fatto ricordare che in quella storia avevano avuto un ruolo particolarmente importante i comunisti e anche i socialisti, perché stiamo parlando degli anni ‘50 e quindi ancora di una fase nella quale il Partito socialista era legato al Partito comunista. La memoria dell’antifascismo e della Resistenza è stata subito colorata dalla Guerra Fredda. Con una sinistra che cercava di utilizzarla per ri-legittimarsi, e quindi far dimenticare la delegittimazione proveniente dalla Guerra Fredda, e una destra e un centro anche moderato che invece cercavano di evitare di enfatizzarla per non dare questo strumento alla sinistra socialcomunista e poi comunista. Lì qualcosa si è storto e da allora non siamo più riusciti a raddrizzarlo». Dopodiché, ha concluso lo studioso, «sono entrati in campo quelli che provengono dalla tradizione degli sconfitti e a quel punto questa ricorrenza ulteriormente è diventata da sinistra un’arma di scontro politico e di delegittimazione politica, mentre da destra la risposta è stata: ma se voi continuate a usarla così contro di noi, allora noi non possiamo riconoscerla. Io non voglio dire chi abbia torto e chi abbia ragione, difficile sapere chi ha cominciato per primo. Quello che è evidente è che tutto questo aveva senso in epoca di Guerra Fredda. Che è finita nel 1989. Sono passati 35 anni e allora non si riesce a capire che senso abbia oggi quel gioco degli specchi che aveva senso allora». Orsina si chiama dunque fuori, evita in teoria di attribuire la responsabilità primaria del «gioco» a una delle parti, ma nell’intervista radiofonica afferma poi che sono state le sinistre — prima con la denuncia del «fascismo mediatico» di Berlusconi e poi con l’allarme contro il «fascismo di ritorno» di Meloni — a usare l’antifascismo come arma elettorale. Arma peraltro spuntata, visto che né allora né due anni fa è servita a evitare la vittoria delle destre. Orsina, come sanno i lettori, è da sempre un punto di riferimento di questa newsletter, eppure in questo caso la sua rievocazione del 25 aprile e dei suoi pluridecennali dintorni e contorni storici appare un po’ svogliata, come se la «liturgia» delle polemiche lo avesse ormai annoiato quanto (ha rivelato negli ultimi anni) il catastrofismo climatico. Altre ricostruzioni sono più chirurgiche nella spiegazione di cosa sia successo davvero alla fine della Guerra Fredda, con il disfacimento dell’Unione sovietica prima e lo scioglimento del Pci poi e dunque la morte evidente, non apparente, del «pericolo comunista» per la democrazia. Un pericolo che d’altronde era stato smaltito da un po’, avendo i comunisti contribuito a costruire la democrazia e a difenderla dall’assalto del terrorismo rosso. E così stemperando negli anni la loro doppiezza filosovietica in una prassi democratica di forma e sostanza, dall’alfabetizzazione di milioni di operai al buongoverno locale fino alle pratiche consociative che — deprecabili dal punto di vista delle finanze pubbliche — certo non comportavano tendenze eversive di alcun tipo rispetto al potere della Dc. Per questo, a proposito della svolta del 1994 e del perché lo scontro sul 25 aprile non si sia concluso ma sia semmai riesploso con la fine della Guerra Fredda, appare più convincente la ricostruzione proposta nei giorni scorsi da Aldo Cazzullo nella risposta a un lettore: «Fino al 1994, il 25 aprile non era un problema. Per la grande maggioranza degli italiani era l’inizio di un ponte. Era un giorno di lutto solo per i neofascisti. Ma il partito del centrodestra italiano, la Dc, non aveva problemi a festeggiarlo. I democristiani erano antifascisti. Alcide De Gasperi sotto il fascismo era stato in galera, don Luigi Sturzo in esilio, don Giovanni Minzoni era stato ammazzato a bastonate. Durante la Resistenza i fascisti avevano ucciso 190 tra sacerdoti e monaci, i nazisti centoventi. Alcuni tra i capi della Dc erano stati capi partigiani: Paolo Emilio Taviani, “Pittaluga”, ministro dell’Interno; Giovanni Marcora, “Albertino”, ministro dell’Agricoltura; Enrico Mattei, “Monti”, fondatore dell’Eni. La Resistenza bianca aveva avuto i suoi martiri, giovani ufficiali cattolici, medaglie d’oro al valor militare, che all’evidenza i nostri ministri anti-antifascisti non hanno mai sentito nominare, da Ignazio Vian torturato e impiccato ad Alfredo Di Dio caduto in combattimento. Più in generale, c’erano nella Resistenza molti uomini di destra, monarchici, liberali, conservatori, carabinieri, militari. Del resto erano uomini di destra i grandi avversari del nazismo, Churchill e De Gaulle. Dal 1994 in poi, il 25 aprile è tornato a dividere, per il semplice fatto che la destra ha sempre rifiutato di riconoscersi in un patrimonio di valori comuni. Ci provò Fini, senza grandi risultati». Da questa analisi si può dedurre dunque che la riesumazione della dialettica fascismo-antifascismo sia stata opera di Berlusconi: risuscitarla conveniva più a lui, che aveva bisogno di evocare la sussistenza del pericolo comunista — in ciò accostumato peraltro da anni di intesa con Craxi — e al tempo stesso ridimensionare le responsabilità storiche del fascismo, perché nel nuovo schema bipolare ogni residuato post-fascista era un alleato da cooptare (Fini fu il primo) o un voto da rastrellare. Conveniva, lo schema, molto meno ai post-comunisti, avviati al compito ciclopico di costruire un nuovo campo progressista col cattolicesimo democratico e dunque interessati a seppellire per sempre il muro contro muro ideologico. Senonché, quando il muro fu alzato da Berlusconi, la sua identificazione col «fascismo mediatico» o l’ur-fascismo (il fascismo eterno) di Umberto Eco scattò da sinistra senza esitazioni e ripensamenti. Con successi importanti (Prodi, due volte) ma effimeri. L’atmosfera e lo scontro di quegli anni sono ricordati con efficacia da Luca Baldissara, il cui saggio 25 aprile — La storia politica e civile di un giorno lungo ottant’anni è stato appena pubblicato dal Mulino. Scrive lo storico dell’Università di Bologna: «Queste due Italie si sarebbero confrontate per oltre un decennio, dal 1994 al 2006, e inerzialmente per un poco ancora, trovando proprio nel 25 aprile un habitat favorevole allo scontro finalizzato alla delegittimazione dell’avversario: da una parte, il berlusconismo assimilava il senso comune di destra – che si ostinava a vedere in quella data una festa volutamente divisiva, celebrante la superbia dei vincitori sui vinti, dei “comunisti” (pur in assenza di comunismo) sui democratici “liberali” – amplificandolo e restituendolo in forma tale da favorire la radicalizzazione anche dei settori moderati e benpensanti del centro-destra, al contrario di quanto aveva invece garantito in precedenza la Dc; dall’altra, il centro-sinistra evocava l’antifascismo storico come richiamo fondativo e identitario per contrastare la nuova destra e difendere la Costituzione, come deposito di valori evergreen per affrontare i problemi del presente, consentendo la difficile convivenza e il connubio politico-culturale in forma di difesa delle garanzie democratico- costituzionali tra componenti della sinistra storica, del solidarismo democratico di impronta cattolica, del generico progressismo antifascista quale rivoluzionaria ideologia anticonformista». Per anni Berlusconi schivò diverse volte le celebrazioni del 25 aprile, con qualche intermittente ridimensionamento della portata totalitaria del fascismo — «il confino era una vacanza», gli scappò in un’intervista — e l’insistente rifiuto di condannare il fascismo se non con una concomitante condanna del comunismo, da ribadire anche nel celebrare la Resistenza, ovvero una pagina gloriosa in cui il contributo dei comunisti era stato rimarchevole. Si arrivò così al discorso di Onna del 2009, in cui Berlusconi, scrive Baldissara, «mostrava di avere trovato una efficace sintesi, un riuscito dosaggio degli argomenti e degli stereotipi sino ad allora emersi. Rendendo genericamente omaggio ad alcuni elementi qualificanti l’antifascismo istituzionale, in tale sintesi avrebbe nella realtà consolidato i fattori portanti della nuova versione antitotalitaria del 25 aprile che veniva avanti da un ventennio. […] Si trattava di una sistemazione nella quale il fascismo scompariva come fenomeno storico reale, rimanendo solo come manifestazione di totalitarismo, quasi un meta-totalitarismo, cui accorpare il comunismo, pure non evocato esplicitamente. Mentre la Resistenza è ricondotta nella sua essenza alla lotta per la libertà e per la patria, come già nei democristiani degli anni Cinquanta». Sulla falsariga di quelle parole berlusconiane, Giorgia Meloni ha provato un’analoga «sistemazione» con la lettera pubblicata un anno fa dal Corriere, in occasione del primo 25 aprile vissuto dalla leader di Fratelli d’Italia da presidente del Consiglio. Meloni si augurò che le sue «riflessioni» potessero «contribuire a fare di questa ricorrenza un momento di ritrovata concordia nazionale nel quale la celebrazione della nostra ritrovata libertà ci aiuti a comprendere e rafforzare il ruolo dell’Italia nel mondo come imprescindibile baluardo di democrazia», e fu importante perché si veniva da continue provocazioni anti-antifasciste da parte del presidente del Senato La Russa; affermò che «da molti anni, e come ogni osservatore onesto riconosce, i partiti che rappresentano la destra in Parlamento hanno dichiarato la loro incompatibilità con qualsiasi nostalgia del fascismo», e fu importante perché evitò un’espressione apparentemente più semplice — «incompatibilità col fascismo» — che sarebbe suonata paradossalmente più forte: una presa di distanza totale anche sul piano storico, e non solo (com’è ovvio) rispetto al presente; aggiunse che «il 25 Aprile 1945 segna evidentemente uno spartiacque per l’Italia: la fine della Seconda guerra mondiale, dell’occupazione nazista, del Ventennio fascista, delle persecuzioni anti ebraiche, dei bombardamenti e di molti altri lutti e privazioni che hanno afflitto per lungo tempo la nostra comunità nazionale. Purtroppo, la stessa data non segnò anche la fine della sanguinosa guerra civile che aveva lacerato il popolo italiano, che in alcuni territori si protrasse e divise persino singole famiglie, travolte da una spirale di odio che portò a esecuzioni sommarie anche diversi mesi dopo la fine del conflitto. Così come è doveroso ricordare che, mentre quel giorno milioni di italiani tornarono ad assaporare la libertà, per centinaia di migliaia di nostri connazionali di Istria, Fiume e Dalmazia iniziò invece una seconda ondata di eccidi e il dramma dell’esodo dalle loro terre. Ma il frutto fondamentale del 25 Aprile è stato, e rimane senza dubbio, l’affermazione dei valori democratici, che il fascismo aveva conculcato e che ritroviamo scolpiti nella Costituzione repubblicana». Il passaggio sul fascismo che «aveva conculcato i valori democratici» è significativo, ma la premier preferì soffermarsi in modo più dettagliato sulla guerra civile, la «spirale d’odio», le «esecuzioni sommarie», la tragedia degli italiani in fuga dalle loro terre. Della Resistenza sottolineò, dunque, gli aspetti più divisivi, non la sua necessità rispetto a un regime criminale. Un elenco dei mali del fascismo sarebbe stato molto più lungo, ma anche questa volta Meloni citò solo «le persecuzioni anti ebraiche». Poi la premier citò la partigiana Paola Del Din, da lei apprezzata perché non era comunista e perché, anziché partigiana, preferiva dirsi «patriota». La sottigliezza semantica meloniana non è mai casuale: «partigiani» è troppo identificato coi comunisti e indigeribile per la destra; «patrioti» è più trasversale, e va esteso eccome — nella visione della premier — a chi stava dall’altra parte. Nella nostra newsletter Prima Ora di quel 25 aprile 2023, ospitammo un intervento di Antonio Scurati. Reduce dal successo del suo straordinario romanzo M, ma non ancora assurto a simbolo dell’antimelonismo. Il testo dello scrittore era anzi pacato, e sembrava più rivolto alla sinistra, alla sua supposta, perenne strumentalizzazione del 25 aprile: «Io credo che, per poter divenire eredi dell’antifascismo novecentesco, si debba rinnovarlo. Oggi è finalmente possibile un antifascismo civico, non più ideologico, un antifascismo che non imponga ad alcuni lo schieramento sotto bandiere ben tinte ma a tutti di prendere posizione sotto la bandiera della democrazia. La democrazia di tradizione europea, liberale, piena e compiuta. Non ne esiste un’altra. Oggi, consumate le sanguinose diatribe politico-ideologiche novecentesche, è finalmente possibile un antifascismo di tutti, di tutti i sinceri democratici». Toni, come si vede, del tutto compatibili, se non affini alle classiche polemiche sull’«appropriazione» del 25 aprile da parte della sinistra, e molti diversi da quelli dell’ormai celebre testo censurato un anno dopo dalla Rai, e da lui riletto ieri in piazza Duomo, in cui Scurati ha attaccato frontalmente la presidente del Consiglio. Il passaggio chiave è questo: «Il gruppo dirigente post-fascista, vinte le elezioni nell’ottobre del 2022, aveva davanti a sé due strade: ripudiare il suo passato neo-fascista oppure cercare di riscrivere la storia. Ha indubbiamente imboccato la seconda via. Dopo aver evitato l’argomento in campagna elettorale, la presidente del Consiglio, quando costretta ad affrontarlo dagli anniversari storici, si è pervicacemente attenuta alla linea ideologica della sua cultura neofascista di provenienza: ha preso le distanze dalle efferatezze indifendibili perpetrate dal regime (la persecuzione degli ebrei) senza mai ripudiare nel suo insieme l’esperienza fascista, ha scaricato sui soli nazisti le stragi compiute con la complicità dei fascisti repubblichini, infine ha disconosciuto il ruolo fondamentale della Resistenza nella rinascita italiana (fino al punto di non nominare mai la parola “antifascismo” in occasione del 25 aprile 2023)». Concludeva Scurati: «Mentre vi parlo, siamo di nuovo alla vigilia dell’anniversario della Liberazione dal nazifascismo. La parola che la presidente del Consiglio si rifiutò di pronunciarepalpiterà ancora sulle labbra riconoscenti di tutti i sinceri democratici, siano essi di sinistra, di centro o di destra. Finché quella parola – antifascismo – non sarà pronunciata da chi ci governa, lo spettro del fascismo continuerà a infestare la casa della democrazia italiana». Ma perché Meloni non può dirsi antifascista?Perché non potè farlo nemmeno quando, esaltando una partigiana non comunista come Paola Del Din, riconobbe implicitamente che l’antifascismo non si può identificare col comunismo? E perché non ha potuto farlo nemmeno in questi giorni, dopo un anno in cui la sua reputazione internazionale si è assolutamente rafforzata e nei suoi confronti c’è molto più corteggiamento che diffidenza? Perché, come si scrisse in quella stessa newsletter, dirsi antifascisti vorrebbe dire uccidere il padre: non solo e non tanto Mussolini, ormai, ma i tanti che dopo la guerra si riunirono nell’Msi. Il motto di Giorgio Almirante — «non restaurare, non rinnegare» — resta attualissimo per Fratelli d’Italia, sorta di «Rifondazione missina» nata 12 anni fa con tanto di simbolo continuista, la fiamma tricolore, che resiste a ogni rimozione fisica e perpetua quelle storiche. Non a caso, nella lettera al Corriere, Meloni rivendicò il ruolo di chi «dal processo costituente era rimasto escluso per ovvie ragioni storiche» ma poi «si impegnò a traghettare milioni di italiani nella nuova repubblica parlamentare, dando forma alla destra democratica». Dunque: fedeltà a quella tradizione, che non ha inteso «restaurare» il fascismo (salvo qualche intermittente rigurgito) ma non l’ha mai «rinnegato», non ha mai ammesso la sua vergogna e la sua violenza intrinseca, non ha mai elencato uno per uno i suoi misfatti, non ha mai sognato nemmeno per un attimo di dirsi «antifascista». E dunque non ha mai ammesso minimamente, che la Resistenza ebbe le sue pagine nere, ma rappresentò la parte giusta della storia. Per i meloniani, sotto questo aspetto, la continuità con i padri missini è assoluta: «l’incompatibilità con qualsiasi nostalgia del fascismo» è il moderno «non restaurare», l’omissione di un’analisi completa del male assoluto del fascismo, con l’elenco al contrario puntiglioso delle malefatte altrui — e soprattutto il rifiuto di dirsi antifascisti — sono il moderno «non rinnegare». La spiegazione più probabile per cui il mondo meloniano e la stessa leader non possono dire che il fascismo fu nella sua interezza — e non solo per la sua corresponsabilità nell’Olocausto degli ebrei — un male, dunque davvero un male assoluto; non possono cioè dire semplicemente che il fascismo è la pagina più orrenda della storia italiana, quella di cui dobbiamo vergognarci di più; e che Mussolini è il peggior italiano di sempre; ecco, la spiegazione è molto semplice: perché non lo pensano. E siccome non lo pensano e ora sono al potere, c’è da aspettarsi che — nel nome dei padri e dei camerati del passato — non rinuncino a cercare di convincerne la maggioranza degli italiani, che pure li votano per altri motivi. È la battaglia per la nuova egemonia culturale che, attorno al 25 aprile e a molti altri simboli, si consumerà nei prossimi anni. E forse, ci consumerà. GIANLUCA MERCURI, editorialista – Corriere della Sera