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Movimenti di Lotta per la Salute, l'Ambiente, la Pace e la Nonviolenza

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L'indipendenza
Gandhi torna alla politica nazionale nel 1928, dopo che il governo britannico ha rifiutato all'India lo
status di dominion e promulgato una nuova Costituzione per il paese senza aver incluso nessun
rappresentante indiano tra i costituenti.
Il partito del Congresso, diretto da Jawaharlal Nehru, stretto amico di Gandhi e futuro premier
dell'India libera, sancisce il Purna Swaraj, l'indipendenza completa, e il 31 dicembre 1929 fa issare
a Lahore la bandiera indiana.
Per Gandhi, e' tornato il momento di una grande campagna nazionale. Che sara' contro il
monopolio britannico sull'estrazione e la vendita del sale, che vieta persino la piccola produzione
locale nelle zone costiere - e nel clima dei tropici del sale non si puo' fare a meno.
Nel marzo del 1930, dopo averlo annunciata al vicere', Gandhi inizia con 78 amici un cammino
verso il mare, con l'obiettivo di far bollire l'acqua sulla spiaggia e di raccogliere il sale che si
cristallizza ai bordi dei recipienti. E' una sfida frontale all'impero. "Metteremo in pratica - dice - una
non-cooperazione talmente rigorosa che infine non sara' possibile alla macchina
dell'amministrazione funzionare in alcun modo. Che allora il governo segua le proprie regole,
impieghi i fucili contro di noi, ci mandi in prigione, ci impicchi. Ma a quanti si possono infliggere tali
punizioni? Provate a calcolare quanto tempo impiegheranno gli inglesi a impiccare trecento milioni
di persone" (46). I manifestanti antimafia del nostro tempo, con i loro striscioni "Ammazzateci tutti",
sono figli di Gandhi, anche se forse non lo sanno.
Migliaia di indiani si uniscono all'impresa, rimasta celebre come la Marcia del sale di Gandhi e
come l'esempio piu' alto nella storia di "teatro" politico.
Nonostante la perfetta nonviolenza, gli arrestati sono piu' di 60.000, compreso Gandhi; ma il
governatore inglese dovra' riconoscere alle popolazioni della costa il diritto di estrarre il sale per il
consumo domestico.
La marcia ha confermato lo status di icona internazionale di Gandhi, il suo genio nel combinare
uso dei media, empatia con le moltitudini, senso della performance - e inventiva pubblicitaria: il
dothi di cotonina bianca sulla pelle appena scura, la canna di bambu' cui si appoggia camminando,
sono un richiamo straordinario per i fotografi e per i cineoperatori, un vero e proprio "marchio". Ieri,
oggi e probabilmente domani, chi vede un'immagine con questi ingredienti pensa a Gandhi, anche
senza sapere la sua storia. Quel che lo ha avvicinato ai contadini indiani, ora lo avvicina al mondo.
Nel 1931 i prigionieri politici sono liberati e Gandhi e' invitato a Londra, come rappresentante del
Congresso ai negoziati noti come la "Conferenza della tavola rotonda" su una nuova Costituzione
per l'India. Non si arriva a niente, anzi si riapre la campagna britannica contro i nazionalisti.
Nuovamente arrestato nel '32, Gandhi digiuna a oltranza, finche' gli inglesi lo rilasciano, terrorizzati
dall'idea che muoia in carcere - non e' la prima, non sara' l'ultima volta.
Nel 1934 si ritira dal palcoscenico politico e torna ai suoi contadini, creando l'Associazione delle
industrie di villaggio, studiata per far nascere una serie di comunita' autogovernate, con
un'economia fondata sullo scambio a piccolo raggio di beni e prestazioni.
Allo scoppio della guerra, propone una campagna di disobbedienza individuale anziche' di massa,
per non danneggiare troppo la Gran Bretagna, ma l'intransigenza di Churchill porta nel '42 il partito
del Congresso a una risoluzione che chiede la fine immediata del dominio coloniale. Mentre il
governo britannico soffia sulle tensioni tra indu' e musulmani all'interno del movimento
nazionalista, Gandhi risponde lo stesso anno con la campagna "Quit India!", avvertendo che
stavolta la lotta non si fermera' neppure se ci saranno violenze individuali. E' l'invito alla ribellione
nonviolenta totale, un movimento di ampiezza senza precedenti. Senza precedenti e' anche la
repressione, con migliaia di persone uccise o ferite, centinaia di migliaia arrestate, a cominciare da
gran parte dei leader politici. Compreso Gandhi, che inizia nel febbraio '43 il digiuno di penitenza
per le violenze commesse dagli indiani durante l'insurrezione. E ancora una volta deve essere
liberato; la sua salute e' cosi' compromessa che sembra a un passo dalla morte.
Alla fine della guerra il movimento raggiunge il suo scopo - non da solo: la Gran Bretagna e' allo
stremo, il governo e' passato ai laburisti. Il nuovo premier Attlee annuncia che il potere verra'
trasferito agli indiani e il 24 marzo 1947 nomina vicere' e governatore generale delle Indie un buon
amico di Nehru, Lord Mountbatten.
Il Gandhi nazionalista ha vinto, ma quando ormai, piu' che per l'indipendenza, sta lottando contro i
due flagelli storici della societa' indiana, l'esistenza degli intoccabili e la contrapposizione fra indu'
e musulmani.
*
Contro l'India per gli intoccabili
Dopo aver temporeggiato sulla questione delle caste a causa del loro radicamento nell'induismo,
nel '31 Gandhi aveva gettato tutto il suo peso in una campagna contro l'intoccabilita'. Alcuni indiani
di alto lignaggio se ne erano gia' fatti paladini, i senza casta avevano un leader emerso dalle loro
file, Bhimrao Ramji Ambedkar, che chiedeva la cancellazione tout court del sistema castale, e
invitava gli intoccabili a lasciare l'induismo - lui stesso era diventato buddista.
Ma per Gandhi l'idea di restare esterno a un conflitto era difficile da accettare, tanto piu' se la
materia investiva e spaccava l'intero paese. Di fronte al Communal Award sul riconoscimento delle
comunita', che prevedeva elettorati a parte per musulmani, sikh, europei, cristiani, intoccabili, si
era opposto duramente. "Noi non vogliamo che gli intoccabili siano classificati nei nostri registri
come una classe separata - aveva detto nel novembre 1931 - I sikh possono rimanere tali per
sempre, e cosi' anche i musulmani e gli europei. Gli intoccabili dovrebbero restare intoccabili in
eterno? Preferirei che l'induismo morisse piuttosto che l'intoccabilita' continuasse" (47). Dopo aver
rinominato gli intoccabili harijan, figli di dio, aveva annunciato che se fosse rimasto il solo a
resistere al Communal Award, avrebbe resistito con la sua vita. Pochi lo avevano preso sul serio.
Ma il digiuno a oltranza del settembre 1932 nel carcere di Yeravda e' contro l'intoccabilita', e
Gandhi chiarisce che la sola cosa in grado di farlo desistere e' la modifica della legge elettorale. Il
paese si ferma, nelle chiese americane e inglesi si prega per lui, molti indu' di alta casta aprono i
templi agli intoccabili, permettono loro di usare i pozzi, a volte condividono i pasti, promettono di
ammetterli alle scuole e ai servizi sociali. Mentre Gandhi e' ormai morente, il primo ministro
britannico, il Congresso e Ambedkar accettano di rinegoziare la clausola. E' "l'illustrazione piu'
spettacolare di un satyagrahi che esce vittorioso da un conflitto condotto da solo contro un popolo
e un governo" (48).
In realta' Gandhi ha raggiunto il suo obiettivo solo in parte, e nel timore che i templi si richiudano e
i contatti diradino, nel 1933 inizia una marcia di dieci mesi lungo piu' di 20.000 chilometri. Va di
villaggio in villaggio, organizza cene e concerti affiancando notabili e harijan, raccoglie fondi, prega
in pubblico, chiede in dono alle donne i loro gioielli, a volte glieli toglie di dosso - e alcune finiscono
per lasciarli a casa (49). L'adesione e' spettacolare, ma presto i templi cominciano davvero a
richiudersi, e del resto ad Ambedkar e ai suoi seguaci l'apertura era sembrata poca cosa. Molti
intoccabili perdono fiducia in Gandhi, una parte non gliela concedera' piu'.
*
Contro l'India per l'unita'
Gia' nei primi anni Venti Gandhi era talmente convinto della crucialita' delle relazioni indu'-
musulmani, che aveva aderito alla improbabilissima campagna per la restaurazione del califfato
ottomano come garante dei luoghi sacri dell'islam. Nel 1924 aveva lanciato un digiuno con la
parola d'ordine della fratellanza nella diversita'. In ogni iniziativa aveva messo lo spirito di Hind
Swaraj, dove all'interlocutore che gli chiede: "Cosa dirai alla nazione?", risponde con una domanda
folgorante: "Chi e' la nazione?" e prosegue: "l'India non puo' cessare di essere una nazione
perche' la gente che ci vive appartiene a religioni diverse [...]. Coloro che hanno preso coscienza
dello spirito di nazionalita' non interferiscono nella religione altrui; se lo fanno, non sono adatti ad
essere considerati una nazione" (50). Era, nel 1909!, una netta adesione al modello di Stato laico e
pluriculturale. Il nazionalismo di Gandhi non aveva niente di mistico, di romantico, di etnico; era
inclusivo, universalista, radicato nella storia comune del subcontinente, nella comune oppressione
e volonta' di riscatto. Dividersi gli sembrava una "vivisezione".
Se non che, i musulmani stavano riscoprendo, in parallelo con gli indu', il loro senso di identita'
nazionale, avevano un leader, Mohammed Ali Jinnah, presidente del partito della Lega
musulmana, accesamente separatista, che accusava Gandhi di rallentare il distacco con le sue
trattative interminabili, di ricattare gli avversari con i suoi digiuni.
La prospettiva dell'indipendenza fa esplodere le tensioni. Nel '46, falliti gli sforzi di creare un
governo provvisorio composto da indu' e musulmani, l'odio religioso divampa in massacri reciproci.
Tutto il paese e' insanguinato e disperato. A causa dell' "idiozia di tutte e due le parti", dice Gandhi
(51). Che, con i suoi fragili 77 anni, inizia una marcia di dieci mesi nella ribollente provincia del
Noakhali. Va a piedi appoggiandosi alla sua canna di bambu', in auto, in treno - e a ogni stazione
le folle si accalcano, salgono sul tetto dei vagoni, battono ai finestrini per avere la sua benedizione,
mentre un numero sempre maggiore di capi locali si impegna a proteggere a costo della vita gli
appartenenti ad altre religioni. E' il primo esempio nella storia di interposizione fra schieramenti in
lotta. Ed e' una minaccia per gli estremisti indu' e musulmani. I primi lo chiamano "Mohamed
Gandhi", gli altri lo denunciano come il "nemico numero uno". La maggior parte delle lettere che
riceve traboccano di insulti.
Sfiniti e spaventati dalla prospettiva di una guerra civile, i negoziatori del Congresso abbandonano
la linea unitaria, e nel giugno del 1947 firmano con la Lega musulmana e i sikh il piano di
Mountbatten per la spartizione dell'India. Nasce il Pakistan, Gandhi registra la sconfitta e dichiara
pubblicamente che l'India "non ha mai seguito la sua strada" (52). Mentre milioni di profughi si
spostano dall'India al nuovo Stato e viceversa, in varie zone si arriva alla pulizia etnica reciproca. I
britannici non vedono l'ora di andarsene da questo inferno.
Gandhi ci si immerge. A Calcutta, luogo delle peggiori atrocita', digiuna finche' i leader indu' e
musulmani sottoscrivono un accordo di pacificazione che reggera' per mesi - e' l'evento chiamato
"il miracolo di Calcutta" (53). Lo stesso succede in Bengala. Gandhi si ferma poi a Delhi, dove
sfugge a un attentato e dove il 13 gennaio '48 inizia un digiuno a oltranza, mentre gli estremisti
indu' gridano "Lasciatelo morire". Cinque giorni dopo, ottiene la firma dei capifazione a un patto di
tregua e protezione reciproca. Dodici giorni ancora, ed e' assassinato da un fondamentalista indu';
stava preparando un incontro interreligioso per la costituzione di un esercito nonviolento, il Shanti
Sena (54).
Al primo che accusa dell'omicidio i musulmani, Mountbatten risponde seccamente: "Sciocco! Non
lo sai che e' stato un indu'?". Un membro del suo staff gli chiede come faccia a saperlo, lui
risponde: "Non lo so. Ma se e' un musulmano siamo tutti spacciati, percio' e' bene che sia un
indu'". Gandhi avrebbe fatto lo stesso.
Venticinque anni dopo, Larry Collins e Dominique Lapierre intervistano Mountbatten, e arrivati a
parlare dell'assassinio vedono qualcosa di perturbante: "Quest'uomo, che si vantava di essere un
guerriero professionista, un uomo che sarebbe affondato assieme alla sua nave piuttosto che
abbandonare il suo posto, piangeva. Piangeva apertamente, senza vergognarsi, mentre
raccontava di essere entrato nella Birla House quel pomeriggio di gennaio, e di aver visto il corpo
di Gandhi adagiato sul lettuccio di paglia" (55).
*
Il Gandhi musulmano
Anche quando nella campagna unitaria e' piu' isolato, Gandhi puo' contare su Abdul Ghaffar Khan,
leader della piu' grande tribu' dei pathan (conosciuti oggi come pashtun) della Frontiera, la zona fra
India, Afghanistan e l'attuale Pakistan che dopo la conquista britannica era diventata l'estremo
Nord-Ovest dell'India. Figlio di un ricco capo tribale del distretto di Peshawar, aveva assistito da
ragazzo alla rivolta del 1897, cui gli inglesi avevano risposto distruggendo i raccolti, abbattendo gli
alberi, avvelenando i pozzi, demolendo le case - e innescando una guerriglia senza fine.
Ancora giovane, aveva deciso di fare politica e preso contatto con leader musulmani progressisti e
comunisti, ma stava ancora cercando la sua strada. La trova nel 1914, quando decide di dedicare
la vita alle riforme sociali e all'indipendenza dell'India. Tra il 1915 e il 1918 visita le basse valli della
Frontiera, e, nonostante l'avversione dei mullah e gli ostacoli della legge inglese, apre scuole nel
suo villaggio di Utmanzai e in altri vicini. Nel 1919, quando i britannici negano ai pathan la modesta
autonomia riconosciuta alle altre province, fonda un partito di opposizione che diventera' il piu'
popolare della regione (56). Nel 1920 partecipa alla sessione del Congresso che decide la lotta
nonviolenta, si riconosce in Gandhi, lo incontra personalmente nel 1928 ed entra nella sua cerchia.
Ma la scelta nonviolenta e' precedente, e si ispira al codice d'onore pathan e all'islam. Credente
devotissimo, Ghaffar Khan sceglie nel patrimonio religioso islamico gli insegnamenti capaci di
combattere l'odio, di svuotare la mistica della vendetta. Nella sua concezione, jihad vuol dire
qualcosa di molto diverso da quel che si intende oggi; e' la lotta per l'indipendenza e per le riforme,
ma soprattutto l'impegno a riformare se stessi (57).
Lui, che ha ereditato il titolo guerriero di Khan, che e' detto anche Badshah, il "re dei Khan",
diventa un guerriero senza armi e una guida spirituale. Riesce a creare il primo "esercito"
nonviolento (ma inquadrato militarmente) della storia, il Khudai Khidmatgar ("servi di dio"),
incaricato di aprire scuole, sostenere progetti di lavoro, mantenere l'ordine nelle assemblee,
sviluppare l'autogoverno. Tutti i pathan possono farne parte, uomini e (nelle intenzioni) donne (58),
scelta inaudita all'epoca, purche' giurino sul Corano di seguire i principi dell'islam e, se
perseguitati, di rispondere con il satyagraha. Come Gandhi, rispetta tutte le religioni perche' "Dio
manda messaggeri ovunque" (59), valorizza il ruolo delle donne nel movimento e l'istruzione
femminile, vive una vita semplice. Come Gandhi, spesso - fra carcere e lavoro politico - trascura la
famiglia. A differenza di Gandhi, non fa voto di castita' e si sposa tre volte.
L'India si accorge dei pathan durante la marcia del sale (60), quando si viene a sapere che si sono
uniti alla lotta. Contro di loro, l'esercito usa carri armati, mitragliatrici, provocazioni per spingerli a
reagire con la violenza (61). Senza successo.
Dopo l'accordo fra Gandhi e il vicere', la regione ottiene la parita' politica col resto dell'India e
Ghaffar Khan, ormai considerato un santo, il "Gandhi della Frontiera", sceglie la condizione del
fakir, il senza terra e senza diritto di voto nella jirga. Il seguito che guadagna gli scatena contro la
ritorsione britannica.
Imprigionato per tre anni senza processo, poi bandito dalle sue montagne, al rilascio nel 1934
accetta l'invito di Gandhi a vivere nel suo ashram di Wardha; nuovamente incarcerato, all'uscita,
nel luglio '36 torna da lui.
Gandhi ne e' felice. Ghaffar Khan e' il soldato capace di convertire altri soldati (62), la conferma
vivente che anche l'islam include un messaggio di pace, che la potenza del corpo e la
dimestichezza con le armi non sono affatto un ostacolo alla nonviolenza - i pathan sono in genere
fisicamente imponenti, abituati da sempre ad andare in giro con il fucile in spalla. La loro fama di
guerrieri e' tale che gli stessi leader nazionalisti ne diffidano, e quando si sparge la notizia che
hanno scelto la nonviolenza, i capi politici e militari britannici sospettano un inganno: il satyagraha -
pensano con doppio razzismo - si addice ai fragili indiani, femminilizzati da due secoli di ruoli
servili; chi possiede la forza non puo' fare a meno di usarla, perche' ai "selvaggi" manca
l'autocontrollo (63).
Nel '38, Ghaffar Khan gira la Frontiera con Gandhi, per esercitare i volontari nel Programma
costruttivo. Poi prosegue da solo, avversato dagli inglesi, dai mullah, dai nazionalisti musulmani,
dai ricchi khan che non vogliono riforme. Sfugge a due attentati, continua a lottare per chiudere le
faide familiari e tribali, cerca di "nutrire l'affamato e vestire l'ignudo", ricorda alle donne la loro
parita' coranica con gli uomini. Insegna la sabr, la pazienza, ricordando che nel Corano e' la virtu'
cardinale della jihad.
Nel 1940, quando Ali Jinnah lancia la secessione, Ghaffar Khan invita invece la Lega a cacciare gli
inglesi e poi a vivere insieme, indu' e musulmani, come avevano fatto per secoli - gli estremisti lo
bollano come Khan indu'. Ma e' attaccato anche da una parte dei pathan, che appoggiano la
guerra e non approvano il matrimonio di suo figlio con una donna parsi, e di sua nipote con un sikh
convertito al cristianesimo; a qualche inglese sembra "schiavo dei suoi principi", e "un po' matto"
(64).
Durante i massacri indu'-musulmani, attraversa con Gandhi le regioni piu' infuocate per mettere
pace e testimoniare la fratellanza. Si separano solo al momento in cui Gandhi parte per Calcutta,
Khan per la Frontiera, dove i Khudai Khidmatgar stanno proteggendo indu' e sikh dai musulmani, e
assicurano lealta' al neonato Pakistan, in cui e' stata inclusa buona parte della regione.
Ma aver lottato per l'unita' del subcontinente e' considerato un tradimento, e Ghaffar Khan reagisce
accusando il governo pakistano di essere una (irreligiosa) marionetta dei britannici (65). Quando
chiede autonomia per i pathan, i Khudai Khidmatgar sono messi al bando, le loro sedi distrutte, la
loro memoria sistematicamente cancellata (66). Lui e' condannato a tre anni di carcere duro,
prolungati a sette, e subito di nuovo arrestato. In un intervallo di liberta', fonda il primo partito
socialdemocratico del Pakistan, ma ormai e' gravemente infermo - fra prigioni britanniche e
pakistane, ha passato 30 anni rinchiuso (67).
*
Sangue indiano, sangue britannico
Le istruzioni per la marcia del sale sono: non indietreggiare davanti ai fucili spianati, non difendersi
neppure alzando le braccia per deviare i bastoni ferrati dei poliziotti, rialzarsi dopo le cadute, non
fermarsi per mettere in salvo i feriti. Alcune descrizioni impressionano.
Negley Farson, corrispondente speciale del "Daily News" di Chicago, racconta di un gruppo di
sikh: "Il capo sikh era simile alla statua del gladiatore di Roma: un uomo erculeo, con la barba
legata alle orecchie. Lo stavano picchiando in testa, continuarono a colpirlo finche' il turbante si
disfece. Ancora qualche bastonata e i capelli si sciolsero e gli caddero sulla faccia. Ancora un po'
di sangue comincio' a colare giu' per i capelli neri penzolanti. Lui rimaneva li', ritto con le mani sui
fianchi. Poi arrivo' un colpo particolarmente violento e cadde in avanti con il volto a terra. Mi
avvicinai al sergente bianco: era tanto sudato per lo sforzo che la sua Sam Browne [modello di
cintura] gli macchiava la bianca tunica. Lo fissai con il cuore in gola: tiro' indietro il braccio per la
stangata finale... ma poi crollo' con le mani lungo il corpo. 'Non serve a niente', disse rivolgendosi a
me con un vago ghigno di autogiustificazione. 'Non si puo' picchiare un disgraziato quando ti sta di
fronte in quel modo'. Fece al sikh un irridente saluto militare e si allontano' [...]. Il sikh mi lancio' un
sorriso sanguinolento e si rialzo' per ricominciare" (68).
Il saluto militare e' il classico riconoscimento concesso a chi ha combattuto e perso con onore.
Solo che l'onore qui sta nel non combattere, e il tocco di irrisione serve probabilmente ad alleviare
il doppio scacco di trovarsi nel ruolo del carnefice e di doversi arrendere a un coraggio cosi'
diverso. "Vi sfiniremo con la nostra capacita' di soffrire", aveva detto Gandhi. Grazie all'esperienza
diretta, il sergente capisce piu' e meglio del funzionario britannico che in quell'occasione parla di
"entusiasmo isterico", di "smania del martirio".
Ma Farson racconta anche di una donna che sollevava il suo bambino per farlo colpire sulla testa,
indifferente a tutto tranne che a offrirlo alla causa. Per simboleggiare l'inermita' offesa, ai
bolscevichi e' stato necessario l'Ejzenstejn della Corazzata Potemkin, con la famosa carrozzina
che rotola giu' dalla scalinata di Odessa. Quel che in Urss e' rappresentazione, in India e' realta'.
Che sia una realta' desiderabile e' altra questione.
L'autosacrificio ha una lunga genealogia, dai protomartiri della cristianita' ai monaci tibetani di oggi,
passando per il topos universale del guerriero compassionevole.
Ma che la scelta del sangue comprenda quello altrui e venga da un nonviolento, inquieta. Gandhi
non sembra preoccuparsene: e' un pragmatico, che coltiva la speranza di limitare la violenza in
una circostanza data, non la pretesa di cancellarla dal mondo. Che puo' rinunciare alla coerenza
fra mezzi e obiettivi fino a rasentare il disprezzo per la vita (69). Ed e' un uomo devotissimo, che
alla morte guarda attraverso il filtro della reincarnazione.
Considerando il medio periodo, si deve a lui (e da ultimo alla disponibilita' del governo laburista) se
il sangue versato dagli indiani per l'indipendenza e' incomparabilmente minore di quello sparso in
Algeria, Angola, Rhodesia, o in qualsiasi altro territorio ex coloniale. E se nessuna potenza ha
lasciato un possedimento con cosi' poche perdite come il Regno Unito.
Che nel sangue risparmiato vada incluso quello britannico e' una ovvieta' non sempre ricordata.
Quanto sarebbe costata a Londra una guerra di liberazione e' facile immaginare, pensando a un
popolo di 300 milioni di persone, in cui una parte notevole degli uomini aveva imparato l'uso delle
armi nelle campagne militari dell'impero, e in cui era vivo il ricordo della strage seguita
all'ammutinamento dei Sepoy? Senza Gandhi, una guerra di guerriglia avrebbe probabilmente
trovato appoggio interno (oltre che la simpatia dei socialisti europei e di settori dell'intellettualita'
inglese). Senza di lui, persino il terrorismo avrebbe potuto affermarsi.
Certo, il Regno Unito restava una grande potenza, ma impoverita dalle guerre e dalla corsa al
riarmo. Conservava l'orgoglio guerriero, ma le madri britanniche, stando alle sconsolate inchieste
medico-sociali, di guerrieri ne producevano troppo pochi, piccoli di statura, deboli di salute,
scarsamente patriottici, vulnerabili a paragone dei pathan delle montagne, che avevano proprie
strutture militari, armi nascoste dopo l'invasione britannica e la possibilita' di riceverne altre dagli
afghani a nord della Frontiera. "Avrebbero potuto condurre la piu' terribile delle rivolte se non
fossero stati guidati da una commovente, persino cieca fiducia in 'Baba Gandhi'" (70). E fra gli
indiani della pianura, le esplosioni di collera avrebbero potuto trasformarsi in ribellione endemica.
Nel '40, quando gli inglesi restano soli a combattere Hitler, cosa ne sarebbe stato di loro (e del
mondo) se l'India si fosse sollevata, o addirittura, come proponeva il collaboratore e poi nemico di
Gandhi Subhas Chandra Bose, si fosse schierata con Giappone e Germania?
A Londra, la statua di Gandhi al centro del parco di Tavistock Square lo raffigura seduto, in posa
meditativa, non come il condottiero di masse che e' stato; e lo colloca all'interno di un memoriale
dedicato anche a Hiroshima - fra le vittime, dunque, e a lui non sarebbe piaciuto. Che fosse difficile
decidere con chi accompagnarlo e' vero; forse con nessuno. Ma perche' non un memoriale per lui
solo, in nome dei tanti ragazzi cui la sua nonviolenza ha risparmiato il destino di quelli francesi in
Indocina?
*
Incoerente, effeminato, folle
Di Gandhi non si puo' certo dire che sia stato messo ai margini. Su di lui esiste una mole di opere,
una collana di cento volumi raccoglie i suoi scritti. L'elezione a padre di un grande popolo protegge
dall'oblio, ma lo imprigiona nell'immagine di uomo di dio. Lo era, lo e' sempre stato?
Gandhi ha sostenuto due guerre e una spedizione militare, non ha capito la portata della seconda
guerra mondiale, ne' la frattura storico-politica rappresentata dai totalitarismi, e neppure il
genocidio incombente (71). Agli ebrei ha consigliato di andare incontro alla morte in spirito
nonviolento. Dov'e' il Gandhi secondo cui il satyagrahi non puo' assistere inerte all'ingiustizia, il
Gandhi che rifiutava la passivita' e riteneva folle lanciare una campagna senza aver preparato gli
aderenti? Gli e' subentrato, si direbbe, un politico come tanti, che sacrifica la difesa degli innocenti
perseguitati alla propria passione - l'unita' con i compatrioti musulmani, ostili all'idea di un rifugio
per gli ebrei in Palestina.
Quando un carissimo compagno di lotta - forse l'oggetto di una sua passione omoerotica - ormai
vecchio e malato attraversa il mondo per supplicarlo di perorare la causa degli ebrei, Gandhi esita,
infine scrive a Hitler, firmandosi "il suo amico sincero", nell'illusione di dissuaderlo dalla guerra:
come e' stato detto di Simone Weil, una umilta' sovrumana puo' accompagnarsi a un'arroganza
quasi oltraggiosa (72).
I suoi digiuni a oltranza sono una forma neppure velata di ricatto, e quando un missionario
americano gliene chiede ragione risponde: "Si', e' lo stesso tipo di coercizione che Gesu' esercita
su di voi dalla croce" (73). "Un potenziale santo puo' essere una persona molto difficile", scrive
Eliot (74). La sua antropologia e' segnata dalla contrapposizione fra lo spirito, luogo della salvezza,
e il corpo, luogo del cedimento - come per molti intellettuali novecenteschi - e in piu' e' devastata
dal terrore della sessualita'.
Ma Gandhi e' fisicamente coraggioso, terapeutico per il morale del suo popolo, indifferente alla
razza, alla religione, allo status. Autenticamente votato alla poverta' - alla sua morte, tutti i suoi
averi valgono meno di 5 sterline. Dotato di un talento meraviglioso nell'esprimere i concetti piu'
ardui in termini comprensibili a chiunque.
E' anche pieno di fiducia negli altri, giocoso, pronto a far ridere i bambini con le sue smorfie e un
po' bambino lui stesso. Ironico, come quando, richiesto di un parere sulla civilta' occidentale,
risponde: "Penso che sarebbe una buona idea" (75). Gli alti standard, scrive Orwell, non devono
far dimenticare le virtu' poco appariscenti (76).
Con la sua compassione e le sue ambiguita', il suo candore e la scaltrezza ereditata dagli antenati
mercanti, Gandhi e' un catalizzatore di sentimenti forti, ed era gia' cosi' per i contemporanei. Molti
grandi del mondo lo consideravano la luce del Novecento. Fra i politici inglesi, i migliori lo
appoggiavano, ma Churchill ne era offeso e inorridito, e non pochi speravano appassionatamente
che morisse durante un digiuno. Il suo peccato andava al di la' dell'indipendenza, era l'impressione
che - semplicemente esistendo - si facesse beffe del modello di politica (e di mascolinita') caro
all'Occidente.
Un leader che ogni giorno fila la sua bobina di cotone, che si presenta al re-imperatore coperto di
un dothi come l'ultimo degli straccioni, espone il suo corpo invecchiato e la bocca sdentata, siede
per terra a gambe incrociate, rifugge dalla convivialita' maschile, non e' un vero politico, ne' un
vero uomo. Se il suo autocontrollo e il suo coraggio sono indiscutibili, ci si puo' rivalere
chiamandolo "omuncolo", "fachiro mezzo nudo", "simulatore di digiuni" - l'imperialismo e' un
sentimento piuttosto che una politica (77).
Gandhi lo sapeva, e contro l'idealizzazione dell'eta' adulta, della mascolinita' e della normalita',
aveva scelto di essere "irresponsabile, effeminato, immaturo e folle" (78) - corpo estraneo.
Anche negli anni Sessanta-Settanta, chi fa conoscenza con lui si innamora o lo scarta. Le lotte
all'Est e gran parte del movimento per i diritti civili si ispirano al satyagraha; gli studenti in
Occidente quasi lo ignorano, fa scuola lo psichiatra Fanon, che teorizza il potere liberatorio della
violenza degli oppressi. Gli eroi sono Guevara, Ho Chi Min, Mao.
Presto, sull'onda del neofemminismo e degli studi postcoloniali, si fara' strada un nuovo sguardo
critico su Gandhi, sul suo pensiero in tema di femminilita' e mascolinita' (79), sul suo ecumenismo
che pretende di unire l'elite occidentalizzata, i professionisti, i proprietari terrieri e i contadini poveri
(80) sacrificando - detto brutalmente - la lotta di classe a quella anticoloniale (81).
Altri studiosi proveranno ad accorciare la distanza dalle icone rivoluzionarie (e da Marx e Lenin)
setacciando la sua opera in cerca di tratti apparentabili, o definendo marginale il suo ascetismo.
Ma Gandhi non e' meno lontano da Guevara che da Churchill (82); e, come scrive Erikson, "se il
satyagraha ha avuto la potenzialita' di rivaleggiare con la liberazione del lavoro leniniana e di
sfidare altre fedi politiche del XX secolo, la realizzazione dipendeva dalla fedelta' o dall'infedelta'
[di Gandhi] alla sua purezza interna" (83).
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Rimuovere Gandhi?
E oggi, che sotto i nostri occhi passa di tutto e il suo contrario, che la nostra societa' sembra
impegnata a inverare la profezia di Gandhi sulla sua autodistruzione?
In una recente biografia molto ben accolta e qui gia' citata, Great Soul di Joseph Lelyveld,
compare un Gandhi politico mediocre, padre indifferente, autocrate capriccioso, maniaco che tiene
il conto di ogni grammo ingerito, di ogni centimetro di pelle da mostrare, di ogni piega del tessuto in
cui si avvolge, di ogni esercizio di automortificazione. Un asceta egotico, che da vecchio ama
dormire con fanciulle seminude usandole come strumento per mettere alla prova la sua castita', un
moralista ipocrita che nasconde un legame omosessuale. In una biografia di poco precedente (84),
si raccontano le sue prevaricazioni contro tutti i politici durante le campagne sull'intoccabilita';
l'ossessione per le funzioni del corpo, la pretesa di usare i nipoti come segretari e assistenti,
l'ipersessualita' anche in eta' avanzata. Si spiega che la piu' famosa fotografia di Gandhi a Dandi
dopo la marcia del sale, e' una "ripetizione" dell'arrivo, scattata tre giorni dopo e a 20 chilometri di
distanza - ma di quante altre immagini elette a simbolo si puo' dire lo stesso. Si denunciano i molti
aggiustamenti delle due autobiografie. Si sostiene che la sua ambizione non era l'indipendenza o
una vita migliore per gli indiani; era raggiungere la propria perfezione spirituale.
Non si tratta di pamphlet, quelli di Lelyveld e Adams sono studi documentati. Solo che presentano
come disvelamenti una serie di critiche gia' circolanti fra gli oppositori di Gandhi (che non
nascondeva affatto le proprie abitudini) e in biografie precedenti (85). Viene allora spontaneo
chiedersi se la character assassination nel suo caso non sia un po' troppo attraente. Perche' e' un
"santo", il che rende le "scoperte" piu' ghiotte? O perche', scrive lo stesso Lelyveld, anche adesso,
"non lascia tranquilli gli indiani, e nemmeno il resto del mondo" (86).
Tutte e due le cose, probabilmente. Gandhi disturba, specie se incontra l'iperateismo,
l'iperrazionalismo, il marxismo militante e altri ismi; e viene ricambiato. Per esempio da Domenico
Losurdo, che dedica grande spazio a "smascherarlo" (87). O da Christopher Hitchens (88). Per
Hitchens, l'India, che avrebbe avuto bisogno di un moderno leader, si e' trovata nelle mani di un
fachiro - le parole di Churchill ottanta anni fa. Un fachiro che con i suoi discorsi sull'induismo e le
sue ostentazioni di culto, avrebbe incrementato la paura dei musulmani di trovarsi subordinati alla
maggioranza indu', spingendoli alla secessione. Un cattivo modello per i popoli oppressi, capace di
invitare un dirigente sudafricano a non vergognarsi di indossare soltanto un pezzo di stoffa intorno
ai fianchi: "Non e' facile - ammicca Hitchens, in questo caso occidentalista inconsapevole -
immaginare Nelson Mandela che segue questo semplice consiglio". Un cattivo maestro, convinto
che il meglio per l'anima siano la castita' e la poverta' (89). Un opportunista: lanciare la campagna
"Quit India!" nel 1942 significava delegare i giapponesi a combattere per la liberta' del paese,
mentre quando l'esercito di Hirohito premeva ai confini dell'India, sarebbe stato doveroso
prepararsi a una guerriglia. Infine, Gandhi e' un totale anacronismo.
Eppure, scrive Judith Brown, come "uomo del suo tempo che pone le domande piu' profonde
anche se non ne conosce la risposta", puo' essere un uomo per tutti i tempi (90). L'India si e'
gettata nella modernita' piu' caotica senza saper eliminare l'abisso fra i ricchi e i poveri, ne' il peso
delle caste. E neppure il crimine degli aborti selettivi di femmine e dell'uccisione di neonate, la
violenza contro le donne (91). Ma conta alcuni grandi teorici dell'economia compatibile, pullula di
attivisti per la difesa dell'ambiente, ha un primo ministro sikh, ha avuto tre presidenti musulmani, il
maggiore partito e' presieduto da una donna di origini cristiane. E il Shanti Sena ha fatto da
modello per l'interposizione a livello di base.
Gandhi e' spesso mal conosciuto, a volte brutalmente distorto: per la sua affezione all'Islam e il
suo antico sostegno al califfato si e' arrivati a nominarlo precursore di Osama bin Laden (92). Ma
ha ispirato grandi critici della modernita', a cominciare da Ivan Illich. E ha trovato eredi non previsti:
dai promotori delle sollevazioni arabe del 2011, alle ragazze ucraine del gruppo di opposizione
femminista Femen, che manifestano scoprendosi il seno davanti ai poliziotti impietriti - e che
avrebbero lasciato Gandhi stupefatto.
Sembra invece spento il ricordo della nonviolenza ispirata all'islam. Inserito nel 1984 fra i possibili
Nobel per la pace, Ghaffar Khan viene scartato perche' troppo pochi lo conoscono. Dopo l'11
settembre, un articolo di Karl E. Meyer sul "New York Times" lo citava come uno straordinario
precedente e una prova della complessita' dell'Islam (93) - un'osservazione che non viene
raccolta. La Frontiera in questi anni e' una zona di insediamento dei talebani, la retorica sui
pashtun superguerrieri prospera, per costruire una tradizione democratica il governo afghano ha
preferito appoggiarsi a un vecchio re. Questa e' l'impressione che si ha guardando all'Occidente e
dall'Occidente (94).
Ce n'e' un'altra, diversa. Ghaffar Khan muore nel 1988, durante la guerra fra Urss e Afghanistan.
Folle strabocchevoli di afghani e pakistani (non solo di etnia pashtun) e di indiani lo accompagnano
da Peshawar a Jalalabad: in suo onore, le frontiere sono state aperte, le ostilita' sospese (95).
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