About Rete Ambientalista Al
Movimenti di Lotta per la Salute, l'Ambiente, la Pace e la Nonviolenza
che
del
Laguna
dell
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AMBIENTEVENEZIA NOTIZIE 9 novembre 2023 Di seguito trovate un importante articolo del giornalista Ugo Dinello intitolato: “Venezia e i veleni del piccolo canale. Uno studio svela i pericoli dell’escavo del Vittorio Emanuele” pubblicato nel pomeriggio di ieri (8 novembre 2023) sul sito online de La Nuova Venezia . Stranamente l’articolo non è stato pubblicato nella versione cartacea de La Nuova Venezia di oggi. Sono cose che noi di AmbienteVenezia abbiamo scritto più volte nei nostri Dossier e sulle osservazioni che abbiamo presentato più volte in questi anni di attività della nostra associazione (osservazioni ai vari progetti presentati per le grandi navi all’interno della Laguna, osservazioni al Piano Morfologico della Laguna, osservazioni inviate più volte all’UNESCO, etc etc). Sono argomenti e notizie che sono state approfondite anche durante lo svolgimento del maxiprocesso Petrolchimico per Strage e Disastro Ambientale che nei diversi gradi di giudizio è durato molti anni. Un processo che è nato dalle denunce fatte dai lavoratori del Petrolchimico che facevano parte del gruppo "Agenzia di Informazione COORLACH" e del giornale di fabbrica “RESIDUO”, del Sindacato di base ALLCA-CUB, di Medicina Democratica, di Greenpeace. Luciano Mazzolin dell'Associazione AmbienteVenezia La Nuova Venezia 08 11 2023 articolo di Ugo Dinello https://nuovavenezia.gelocal.it/regione/2023/11/08/news/venezia_canale_vittorio_emanuele_veleni_grandi_navi-13846376/?ref=NUVE-M6-S1-F Venezia e i veleni del piccolo canale. Uno studio svela i pericoli dell’escavo del Vittorio Emanuele L’inchiesta. Le analisi condotte dall’Università di Padova e di Ca’ Foscari sui molluschi svelano che sul fondale del canale che verrà scavato per fare entrare le “grandi navi” ci sono veleni in quantità 120 volte superiore al resto della laguna. E ogni metodo di scavo li rilascerà nelle acque accanto alla città Ugo Dinello Pb, Cvm, Pcdd e Pcb. Sembrano i nomi di partiti politici ma sono molto più letali: sono i nomi chimici di piombo (Pb), diossine (Pcdd), cloruro di vinile monomero (Cvm) e policrorobifenili (Pcbs). In pratica sono le impronte digitali rimaste sul luogo del delitto che narrano la storia dello sviluppo industriale veneto. Le impronte avvelenate Impronte ben visibili in una zona al centro del bacino scolante della laguna veneta, cioè quella zona compresa tra i corsi d’acqua che in origine finivano nella laguna Serenissima prima che la Repubblica li deviasse. In questa area di 2621 chilometri quadri che si estende nelle province di Padova, Vicenza, Treviso e Venezia, sono stati localizzati 3.112 siti potenzialmente inquinati con i residui della più impattante concentrazione industriale del Nord Est: Porto Marghera. Ed è proprio nelle tranquille acque lagunari di fronte agli impianti chimici che le impronte lasciano il posto al corpo del delitto. Concepita e pianificata nel 1917 grazie a un’emergenza (la Prima guerra mondiale), Porto Marghera ha visto la luce subito dopo la fine del conflitto come centro chimico dell’economia agricola padana, sviluppandosi grazie al ciclo dell’azoto e i fertilizzanti da esso derivati. Poi è letteralmente decuplicata negli anni Cinquanta con l’avvento dell’industria chimica dei metalli pesanti legati alle centrali elettriche, dei carburanti e delle resine. Un periodo in cui, anche a livello catastale, i canali di Marghera venivano definiti “scoli” usati come discarica dalle industrie. Anche i corsi d’acqua che finiscono in laguna come il Naviglio Brenta eservivano allo scopo: l’enorme Mira Lanza aveva due “prese” per pompare le acque del Naviglio Brenta, usarle per pulire le cisterne dei fanghi industriali e quindi reimmetterle nello stesso canale. Tutti i residui industriali sono finiti dunque in laguna e in mare. Dal 1950 in poi si sviluppa la chimica del cloro. Al piombo e agli acidi, ai derivati petroliferi che già vengono scaricati negli scoli di Porto Marghera si aggiungono all’improvviso le dibenzodiossine policlorate, il cloruro di vinile monomero (Cvm) e i bifenili policlorati (Pcb), cioè composti chimici altamente cancerogeni e altamente persistenti nell’ambiente, tanto da essere definiti “inquinanti eterni”. Quando alla fine degli anni Sessanta compaiono le prime leggi nazionali di salvaguardia delle acque inizia il grande business dell’inquinamento del terreno e delle falde, con la febbrile ricerca di cave e luoghi da scavare per interrare i fusti di fanghi con i rifiuti tossici. Ma l’inquinamento in laguna non si ferma ancora. La costante necessità di spazi da rendere industriali e di scavo dei canali porta alla creazione delle casse di colmata in laguna: vere e proprie isole fatte del fango degli scavi del canale dei petroli (tra Alberoni e Porto Marghera) avvenuti tra il 1962 e il 1968, e degli scavi industriali della stessa Porto Marghera, isole che poi hanno rilasciato parte dei loro veleni nell’acqua. Una cosa che infatti viene capita con il tempo è che lo scavo dei canali è quanto di peggio si possa fare in laguna se non viene gestito in maniera corretta. Il protocollo fanghi del 2023 La quantità di inquinanti sotto forma di metalli pesanti e bifenili policlorati rilasciati con l’attività di scavo del fondo lagunare è infatti capace di modificare in modo importante la qualità degli organismi viventi. Ma per capire l’impatto di queste attività era necessario arrivare a una misurazione: indagare i possibili effetti di miscele complesse di contaminanti chimici presenti nei sedimenti lagunari su specie animali che risiedono nelle lagune e nelle aree costiere. Questo tema, anche in seguito alla recente approvazione del cosiddetto “nuovo protocollo fanghi” (Decreto 22 maggio 2023 n.86), che ha affiancato alla caratterizzazione chimica dei sedimenti anche la valutazione degli effetti ecotossicologici su specie animali, è di estremo interesse nella laguna di Venezia. Fra poco infatti bisognerò scavare 1. 280. 000 di metri cubi di sedimenti per riportare le "grandi navi” a Venezia. Per potere riavere i transatlantici oceanici in laguna e aumentare il numero di turisti in centro storico bisognerà infatti farle entrare dagli Alberoni, farle passare per il canale dei Petroli e portarle in stazione marittima in centro storico attraverso il vecchio canale Vittorio Emanuele III. Il canale da raddoppiare Per questo il canale, che attualmente è profondo 7,5 metri e largo 50, sarà scavato per arrivare a 9 metri di profondità (ufficiali ma si teme che si arriverà a 11) e 80 di larghezza (ufficiali) ma anche qui si teme che per la manovra delle grandi navi (la cui lunghezza sfiora i 300 metri) servano almeno 100 metri di larghezza. Ma cosa si troverà nei fanghi del Vittorio Emanuele? Nessuno lo sa anche se nel “Bando per la progettazione e l’esecuzione dei lavori per il Dragaggio del canale di accesso alla Stazione marittima” pubblicato dalla struttura del Commissario straordinario per le crociere, Fulvio Lino di Blasio, che è anche presidente dell’Autorità portuale, viene previsto che a seconda del livello di inquinamento, saranno redistribuiti in laguna o depositati nell’isola di conferimento dei fanghi (Isola delle Tresse) che il Porto vuole sfruttare di fronte a Fusina. Il dragaggio dovrà essere completato entro il 2026 perché entro il 2027 dovranno tornare le navi in Stazione marittima a Venezia. I tempi dunque sono strettissimi. Le ricadute sugli esseri viventi. Lo studio Ma quali saranno gli effetti sugli esseri viventi dei veleni che si rischia di redistribuire in laguna con lo scavo di fanghi inquinanti? La prima risposta viene da uno studio pubblicato dal Dipartimento di Biomedicina comparata e alimentazione e il Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova, in collaborazione con l’Università Ca’ Foscari Venezia, sulla rivista «BMC Biology». Questo studio ha catalogato gli effetti dell’esposizione a sedimenti campionati in diversi siti sul fondo del canale Vittorio Emanuele III (il canale che collega Marghera alla città di Venezia) nella vongola filippina, la Ruditapes philippinarum, cioè la vongola verace arrivata in laguna dall’oriente e che ha preso il posto dell’originale “caparossolo”, cioè la venerupis decussata, che sta sempre più scomparendo. Grazie a questo studio, che si colloca all’interno del progetto Corila Venezia 2021 finanziato dal Mit - Provveditorato alle Opere pubbliche del Triveneto, è stato possibile definire i meccanismi molecolari alla base della tossicità dei sedimenti contaminati. Si sono presi dei “caparossoli” in aree normali della laguna (esemplari di controllo) e li si è comparati agli esemplari trovati sul fondale del canale Vittorio Emanuele. «Gli organismi esposti ai sedimenti, le cui concentrazioni di inquinanti come i PCBs avevano valori fino a 120 volte superiori alle aree di controllo, hanno subìto una significativa alterazione dell’espressione dei geni coinvolti nella risposta a miscele chimiche complesse caratteristiche delle aree urbane e industriali – spiega il prof Tomaso Patarnello, senior author della ricerca - In particolare l’alterazione ha riguardato l’espressione dei geni che fanno parte della via metabolica mTORC1, centrale nel coordinamento della risposta cellulare allo stress chimico». Ma non è tutto. «Anche la risposta immunitaria risulta significativamente aumentata – spiega Patarnello - a seguito della modificazione della composizione del microbioma della vongola con il significativo aumento di microorganismi potenzialmente patogeni per l’animale.» «Complessivamente i risultati ottenuti mettono in evidenza come la corretta gestione dei sedimenti dragati sia essenziale per la conservazione di questa specie e, più in generale, come anche le indagini condotte a livello molecolare possano contribuire a comprendere la complessità dei potenziali effetti avversi su organismi della laguna di Venezia dovuti all’esposizione a sedimenti contaminati» dice il prof. Massimo Milan, corresponding author Secondo l’Università di Padova quindi la ricerca mette in evidenza come la corretta gestione dei sedimenti dragati sia essenziale non solo per evitare il diffondersi di veleni in laguna ma addirittura per la conservazione delle specie che ci vivono. Lo scavo in programma. Gli effetti Ma nessuno al momento è in grado di impedire che lo scavo del canale rilasci un impressionante mole di inquinanti in giro per la laguna. Anche perché lo stesso “Bando di Dragaggio” pubblicato dal Commissario Di Blasio parla espressamente di redistribuzione dei fanghi in laguna o conferimento su un’isola, ma sempre in laguna. Chi conosce molto bene la materia è Stefano Raccanelli, chimico ambientale di fama, che ha scatenato l’inchiesta sull’Ilva di Taranto grazie alle sue ricerche e che ha fatto da consulente durante il processo Petrolchimico di Porto Marghera. Raccanelli affronta il tema da tempo: nel 1987 si è laureato in chimica grazie a una tesi basata su una ricerca intitolata: “La risospensione dei sedimenti come causa dell’inquinamento da Pcbs nella Laguna di Venezia”. Anche per quanto riguarda lo studio degli organismi a fronte dell’inquinamento la sua esperienza può essere definita notevole: nel 1998 durante il processo Petrolchimico i suoi studi dimostrarono che i gasteropodi lagunari come i garusoli, erano talmente inquinati da cambiare sesso. «L’ipotesi che sedimenti altamente inquinati se scavati con i metodi tradizionali formino una risospensione che andrà in giro per la laguna spargendo gli inquinanti è un effetto che ha un’altissima probabilità di avvenire. Direi che in base a tutti gli studi conosciuti si tratta di una cosa ovvia», spiega Racccanelli. Ancora peggio se tali fanghi saranno “redistribuiti” nella stessa laguna, portando i loro veleni a inquinare altri organismi viventi. Le soluzioni pratiche Esiste una soluzione pratica? «Sì, esiste e possiamo addirittura scegliere tra due. La prima è quella di non scavare i canali con i sistemi finora conosciuti e usati in laguna. Fino ad oggi, infatti, il fondale viene scavato con una benna che asporta e solleva i fanghi disperdendoli». In questo caso, spiega Raccanelli, la dispersione di tutti i veleni accumulati sui fondali sarà automatica. «L’altro sistema - continua - è quello di impiegare un’idrovora che aspiri i fanghi, li centrifughi separando l’acqua dal centrifugato. Questa soluzione sarebbe meno impattante dello scavo sempre usato finora, ma non è mai stata usata in queste zone. Quindi possiamo immaginare, dopo lo scavo del canale dei petroli la quantità di veleni dispersi in laguna». Va da sè che se il centrifugato venisse comunque poi “redistribuito” in laguna comunque formata in laguna gli effetti sarebbero deleteri e le redistribuzione nelle acque automatica. Molte riserve esistono anche sul deposito in un’isola all’interno della conterminazione lagunare, soggetta per definizione a maree e infiltrazioni d’acqua. Il centrifugato va dunque portato fuori dall’area lagunare in una discarica attrezzata che però, vista l’enormità di metri cubi da scavare, non esiste. Inevitabilmente, quindi, lo scavo del Vittorio Emanuele III vedrà i fanghi altamente inquinati, con una concentrazione di veleni 120 volte superiore al normale, redistribuiti in laguna o portato su un’isola lagunare. Ma in tempi di resilienza Raccanelli nota come anche in questo caso esista una seconda soluzione: «È quella di non scavare il canale, evitando che un’altra enorme quantità di veleni si disperda comunque nelle acque di Venezia», spiega. Una cosa che la Serenissima faceva anche in passato, evitando accuratamente di scavare troppi canali vicino alle vetrerie di Murano, che usavano veleni già conosciuti come arsenico e piombo. Una soluzione che però colliderebbe con la volontà dell’attuale classe amministrativa che non ha mai fatto mistero, anzi, di voler riportare le grandi navi in centro storico. Raccanelli però propone un’altra freccia all’arco del non intervenire sul canale: «Dobbiamo infatti ricordarci che se scavato il Canale Vittorio Emanuele farà un altro enorme danno: formerà un gigantesco vortice a pochi metri da Venezia che richiamerà le acque alte in caso di superamento del Mose».