Tommaso Di Francesco
Da decenni scriviamo contro ogni guerra e, di conseguenza, a favore di ogni salvezza e
accoglimento per chi dalla guerra fugge in cerca di una nuova possibilità di vita. Così, di
fronte all’«ultima» strage a mare di migranti viviamo uno sconforto di rabbia e impotenza
che ci fa dire che, ormai, scrivere è solo epigrafe. Di fronte all’evidenza delle
responsabilità, sarebbe bastato un silenzio pietoso per gridare l’umanità sepolta nei
cimiteri marini del Mediterraneo.
Invece no. Stavolta c’è un governo che straparla, giustifica e colpevolizza senza vergogna
le vittime, e così facendo è come se rivendicasse, come un monito necessario, la strage di
Cutro di persone annegate a cento metri dalla riva, dove il numero dei morti senza nome
cresce di ora in ora.
«Non strumentalizzate questi morti» ha gridato nervosa la presidente del Consiglio Giorgia
Meloni: possibile che non comprenda che con queste parole tradisce un malcelato senso
di colpa? E poi c’è il barbaro in giacca e cravatta Piantedosi, che ripete convinto la sua
litania funebre anche sul luogo del relitto: «L’unica cosa che va affermata è che non
devono partire». Ma da dove partono e perché gli uomini, le donne e i bambini naufragati a
Cutro? Sono partiti da Smirne, da quella Turchia riempita di miliardi di euro proprio perché
bloccasse gli arrivi in Europa di centinaia di migliaia di esseri umani.
Spesso intrappolati senza scampo nell’inferno della rotta balcanica; dalla Turchia dell’
atlantico Erdogan ora alle prese con il disastro del terremoto e della marea umana di
sfollati interni. Ma queste persone, non «carichi residuali dove l’essere umano è
equiparato a merce» ha ricordato in queste ore don Luigi Ciotti, fuggono anche dalla Libia
dove un mese fa la presidente Meloni è andata a promettere la chiacchiera di un «piano
Mattei», ma in sostanza ad incrementare lo scambio di mercato tra un nuovo accordo sul
gas e nuovi aiuti e cinque motovedette alla «guardia costiera» – le milizie libiche – per
fermare gli im