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1 Mensile dell’Istituto Italiano di Cultura di PechinoNovembre 2009 Anno 0 No.8意大利文化处月刊 2009年 十一月 2 3 D’abitudine, quando i treni funzionano, s’arriva a Pechino in ferrovia. Trovato alloggio al vecchio albergo dei Vagons-Lits od al nuovissimo Grand Hotel, si visita la capitale della Cina a tappe e per quartiere secondo i consigli delle guide scritte e delle guide parlanti. S’incomincia di solito col Palazzo imperiale che la Repubblica ha spalancato democraticamente alla curiosità dei turisti.Si continua con le case di Buddha e di Confucio e si termina con un ballo diplomatico, offerto magari da una Legazione Sud-americana. Pechino è vista! L’ultimo giorno i visitatori più sentimentali vanno a congedarsi dalla Città Proibita. Dall’alto d ’ u n a d e l l e t a n t e t e r r a z z e celesti il passante si sofferma a contemplare la metropol i enigmatica che ha aperto i suoi templi ed i suoi palazzi ma ha conservato intatto il suo mistero. Allora il visitatore anglo-sassone ascolta 1a guida che nomina 1e pagode e le reggie e controlla sul suo ben ordinato taccuino se le ha visitate tutte. Il latino si distrae attraverso i secoli e le cupole, magari immagina d’ascoltare voci misteriose che parlano dalle pietre e dai marmi alla sua anima sognatrice. G1i occhi degli slavi vanno istintivamente alla farragine caotica delle muraglie contro le quali si sono infrante durante i secoli tante ondate di mongoli e di manciù e qualcuna è anche passata. I forti più avanzati sembrano sentinelle accovacciate ne l l a p ianura a sc ru ta re l e lontananze… Quando il tempo pian piano appannerà nella memoria del viaggiatore i templi e le reggie, fino a sbiadire il ricordo stesso del le s trade formicolanti di moltitudine, l’ultima visione di Pechino contemplata dall’alto della Città Tartara è quella che rimane. E siccome Pechino, città poliedrica, ha cento faccie diverse secondo la stagione e l’ora del giorno, secondo le luci e le nubi, lo stato d’animo di chi la contempla e lo schermo attraverso il quale la vede, ognuno conserva di Pechino una impressione personale. Per uno è una immensa c i t tà miserabi le v igi la ta da bizzarri giganti in feluca, per un altro una metropoli magnifica tutta splendente di marmi e di porpore, per un terzo un colossale cimitero nel quale si sgretolano gli abitati e marciscono le genti. Tutte queste impressioni sono in fondo esatte perché ognuna d’esse risponde ad un aspetto caratteristico ed innegabile di Pechino. Solo chi si sofferma nella città a viverci un certo tempo, senza incapsularsi nel quartiere delle Legazioni, riesce ad abbracciare in una visione sintetica gli spettacoli diversi e contraddittorii che nel loro pittoresco insieme costituiscono l’originalità di Pechino. Io per esempio vi sono arrivato attraverso l’immensa tristezza della pianura desolata venendo da nord-owest ed ho contemplata Pechino dall’alto della Città Tartara nell’ora in cui il tramonto tira fuori dagli scrigni gli ori ed i damaschi che restituiscono al la metropoli la sua antica magnificenza. La mia è stata una visione fallace ed ingannevole quanto volete ma è quella che meglio d’ogni altra aiuta a capire Pechino, le reggie e le pagoda, i templi fastosi ed i conventi deserti, i giardini abbandonati e le rovine magnifiche, l’oro ed il letame, le lacche incomparabili e 1e sozzure, i quartieri frementi di vita e quelli morti, tutti gli splendori e le miserie della putrefazione cinese. Sono arrivato nella capitale dei Figli del Cielo non in treno ma per via d’acqua, a bordo d’una giunca senza fretta che scivolava sul tremore d’un canale. Arginato da due muretti rossastri il canale si snodava con sinuosa mollezza attraverso mille paludi, stese a perdita d’occhio fino ai piedi delle muraglie. In primavera tutti i pantani tempestati di fiori di loto cingono la metropoli in un anello di be l lezza e d i profumo. G1i invasori antichi prima di attaccare le mura ciclopiche dovevano vincere il fascino della corazza floreale che incantava e stordiva le lore anime barbariche. Le leggende raccontano che spesso i soldati soggiogati dalla magia dei fiori sacri ritornavano indietro. Fra bastione e bastione i fossati erano colmi di corolle bianche e di corolle rosa, galleggianti sulle acque morte. Nella luce dei crepuscoli veramente pareva che la Città del Cielo fosse fasciata di giada e di maiolica. E più sinistre sembravano le mura babiloniche dalle scarpate angolose come prore di vascelli, d a l l e t o r r i b i z z a r r e c o m e diademi di pagliacci, dalle porte monumentali e bistorte guardate da draghi e da serpenti. In questo scorcio d’agosto le paludi non fanno fiori. Solo in qualche angolo spumeggiante le prime corolle di loto, ancora socchiuse, appena uscite dal mistero dell’acqua Marcia, pallide e quasi vitree. Il resto delle paludi è in piena putrescenza. L’acqua è grigia o rossiccia, verdosa o livida, fangosa ed immobile. In certi punti pompata dal sole e bevuta dalla terra è scomparsa lasciando un tappeto di muffa, uno sfarinamento di velluti, un marciume indefinibile di sete decomposte. Imperano le mura che si dissolvono e si sbriciolano patinate d’oppio e di vecchiezza. Il canale rasenta pagode e porte, palazzi sfondati e senza tetto, case diroccate, giardini incolti, vasche asciut te , tut ta una immensa desolazione che empie l’anima di tristezza e dà la sensazione di viaggiare attraverso un cimitero. Approdiamo ad una banchina franata sulla quale nessuno ci aspetta. C’è solo un Buddha di pietra cogli occhi socchiusi. I pochi passanti cinesi appena degnano d’uno sguardo la nostra farfalla che socchiude le sue grandi ali. Chi fa attenzione a Pechino ad una giunca che arriva? Appena sbarcati infiliamo in «richsaw» una strada lunghissima e rettilinea, una delle tante della sterminata Pechino. La metropoli subito ci inghiotte nella sua immensità tentacolare, fatta di case e case tutte eguali, di strade e strade tutte lunghissime ed uniformi. Attraversiamo quartieri deserti dove pare non abiti più nessuno da divers i secol i e quartieri così strabocchevolmente colmi di folla da parere popolati di grilli e di formiche. Ogni tanto l’abitato è interrotto da un campo coltivato ad ortaggi, da un terrapieno di sassi, da un cimitero o da un blocco di casupole in rovina. Qua e là s’erge un troncone di muraglia merlata o svetta una pila paradossale di feluche gialle sormontata da una piramide di vassoi azzurri. Il sole che declina preannunzia lo splendore di un tramonto teatrale. Ordino al mio «richsaw» d ’ a b b a n d o n a r e l a f i l a d e i compagni e di portarmi sulle mura della Città Tartara. Voglio c o n t e m p l a r e t u t t a P e c h i n o nell’orgia del sole, mentre ho ancora negli occhi 1a morta pesantezza delle sue paludi, ancora nell’anima l’immensa tristezza della sua pianura. Il mio «richsaw» cambia due volte d’uomo-cavallo mentre at t raversiamo da oriente ad occidente la città, ora fuggendo entro parapetti birichini di villette cinesi verniciate al coppale, ora infilando strettissimi corridoi che serpeggiano in mezzo a sordide topaie. Dopo quattro g igan te sche cos t ruz ion i d i cemento che fanno pensare a Nuova York naufraghiamo in un oceano di casupole, messe una accanto all’altra, quasi si direbbe una sull’altra, come mace r i e impacche t t a t e che aspettano una flotta fantastica che debba portarle via. Poi 1a cinematografia di Pechino m’offre un intero accampamento di tende nomadi in mezzo alle quali si vedono cammelli , carovane, uomini vestiti di pelli, biche di fucili e di lancie, donne e soldati intorno a piccoli fuochi. E’ un quadretto di steppa tartarica e di guerra civile che mi fa dubitare il mio uomo abbia sbagliato strada, ma no, ecco profilarsi fra l’ultima tenda ed una bicocca una doppia teoria d’alti palazzi. Siamo sempre a Pechino! Dopo un orto 1a mole formidabile d’un tempio mi fa alzare gli occhi verso un pinnacolo a coda di pesce. Trasvolano a destra tre tettoie sovrapposte di maiolica gialla che hanno l’aria d’essere in balia del vento: a sinistra s’erge un gran fungo azzurro che è la torre di un tempio di Confucio. E ricomincia il mare di stamberghe e delle viuzze, delle botteghe e degli uomini-grillo. Ma di mano in mano che avanziamo qualche cosa s’innalza miracolosamente al di sopra della città, quasi che un magico meccanismo stia sollevando con lentezza un fantastico sipario. Forse tutte le folle lavorano nelle strade e nelle piazzette a girare un argano incantato? Si delinea sempre più alta e sempre più vicina la mole delle Città tartara. S’innalzano le linee rigide delle sue colossali muraglie ad angoli acuti ed a parallelepipedi, le fortezze b u t t e r a t e d i f i n e s t r e c o m e transatlantici, gli archi, le cupole e gli obelischi. Ecco le porte babiloniche, vegliate da torri tozze e basse che hanno la feroce compostezza del mastino alla catena. Fra il primo ed il secondo cerchio di torrioni un campo di letame mi sbuffa in faccia i l suo a l i t o f e t i do . Grupp i d i m a r i o n e t t e s c h e l e t r i c h e raspano nell’immondezza, forse cercandovi qualche cosa da mettere sotto i denti. Un gioiello di giada mitragliato dal sole splende in mezzo ad un ciuffo di alberi nani. Altro letame stende il suo tappeto di putrescenza fra una casamatta dentata che smorfeggia ed una bertesca che si contorce nelle spirali di un drago di pietra. Più in là s’innalzano una sull’altra le terrazze pensili degli imperatori, allacciate da scalette, festonate di chioschi e di tettoie: affascinante anfiteatro di marmi, di legni dipinti e di macerie. Pattuglie della Repubblica fanno i cento passi fra i merli. M’appoggio ad una balaustra e cerco Pechino. La capitale non c’è! Ho dinanzi agli occhi l’impressionante magnificenza di un tramonto d’oro e di fuoco, intorno a me le quinte grandiose della città tartara, ma non vedo Pechino. Sotto le mura si stende solo una vaga immensità di cortili e di giardini, di riflessi e di polverone. - Dov’è Pechino? - chiedo alla mia guida. I l g i a l l o m ’ a d d i t a c o n un gesto largo i giardini e la polvere, le mura della Città tartara spennellate di porpora e lo splendore dell’agonia solare… Ecco Pechino! dice il gesto. Non posso offrirvi altro che il grande nulla ed il grande tutto della guida: ma sono sicuro che se vi descrivessi uno ad uno i palazzi imperiali, quello di estate e quello d'inverno, quello dei principi e quello dei vassalli; uno ad uno i templi di Buddha e di Confucio, di Lao-Tzé e del Cueng-Fui, del Vento e dell’Acqua; le pagode, le biblioteche e le Legazioni; la città tartara, la città cinese e la città proibita; il convento del Grande Lama, il salone del Trono Splendente, i padiglioni del Figlio del Cielo, l’Accademia dei Saggi e quella dei Filosofi, tutte insomma le cose caratteristiche Visione fiammeggiante Pechino, agosto. TUTTI I LIBRI SONO DISPONIBILI NELLA BIBLIOTECA DELL’ISTITUTO biblioteca.iic.pechino@esteri.it TUTTI I LIBRI SONO DISPONIBILI NELLA BIBLIOTECA DELL’ISTITUTO biblioteca.iic.pechino@esteri.it In occasione del Sessantesimo anniversario della Repubblica popolare cinese, abbiamo deciso di iniziare la pubblicazione di stralci di articoli di viaggiatori e studiosi italiani del secolo scorso. I contenuti non rispecchiano necessariamente le opinioni di questo Istituto, ma riteniamo che la memoria sto- rica sia essenza imprescindibile della formazione culturale. La redazione. 4 5 di Pechino che sono 1’itinerario obbligato di ogni visitatore, non riuscirei a darvi una visione altrettanto efficace di questa che sto prospettandovi a grandi pennellate veloci, adoperando solo giuochi di luce e riverberi d’aria, muraglie vicine e cupole lontane, uccelli in fuga e fantasmi del passato. Perché Pechino c’è e non c’è ! Non si può guardare questa città come si guarda Nuova York. Siamo nella capitale del popolo quadrimillenario che ha regalato all’umanità la seta ed il riso, la polvere pirica e la chimica agraria, che ha risolto il problema angoscioso della divinità con la filosofia di Confucio, che ha condensato nella lucentezza delle sue maioliche i biancori delle albe e nella trasparenza delle sue giade i brividi del profondo marino… Nel contemplare i resti di Pechino non possiamo fare astrazioni dalla sua storia, altrimenti la visione è senza luce e l’aspettativa annienta la realtà. Ogni qualvolta stando lontani abbiamo immaginato Pechino abbiamo sempre socchiuso gli occhi sopra uno scenario di sete e di marmi, di draghi e di processioni, d’oro e di lacche, di parasoli e di baldacchini. Bisogna vedere Pechino in una sera d’estate quando il tramonto improvvisa con i colori ed i gioielli dell’Estremo Oriente lo stesso scenario incantato del nostro sogno. Sto sopra uno zoccolo d i p ie t ra , sopra una d i que l le terrazze dalle quali gli imperatori c o n t e m p l a v a n o l a g e m m a dell’impero. Ho intorno a me muraglie ciclopiche e decorazioni bislacche: dinanzi a me una polvere luminosa che è Pechino e che non può disilludere perché l’immenso vago consente tutte le immagini. Sullo zoccolo di pietra e sulla città invisibile ondeggia il baldacchino d’un tramonto magnifico che fa rivivere le mirabolanti descrizioni di Marco Polo ed il lirismo immaginoso dei panegiristi imperiali. È i l baldacchino un vasto cielo di seta gialla e di seta azzurra, ricamato a fiori ed a draghi, a castelli ed a battaglie, tutto colmo di crisantemi e di loto, di azalee e di pescheti in fiore. Una cascata di glicini e di ciliegi fioriti occupa una porzione del cielo mentre dalla parte opposta l’azzurro è striato a piani geometrici da lacche scarlatte e coralline, da tempere color amaranto e zafferano. Tutto ciò che le leggende raccontano e che i musei conservano dei favolosi guardaroba imperiali, tutto ciò che descrivono le sete dipinte ed i preziosi libri miniati, tutto è nel cielo. E l’anima non si meraviglia perché il baldacchino ancestrale è degno della storia e della fama di Pechino. Una nube bianca e fioccosa scende insieme al sole, così che l’astro non si vede ma il suo ardore trasforma la nube in un fantastico fiore d’oro e di perla che cambia ad ogni istante di forma e di tinta. Così doveva avere visto la città Marco Polo quando descrisse il Khambalik di Kubilai Khan! Così doveva averla contemplata il gesuita Grimaldi q u a n d o a t t r i b u ì a P e c h i n o sedici milioni di abitanti! Nella fantasmagoria solare le mura tartare snodano la processione delle loro torri obese e mitrate che si succedono con ordinata compostezza come quando i cortei dei saggi e dei mandarini si recavano a deporre gli omaggi dei templi e delle provincie ai piedi del Trono Celeste. Io dimentico tutto quello che ho letto di Pechino, tutto ciò che hanno scritto i minuziosi contabili della sua decadenza. Solo ricordo 1’entusiastica descrizione di Lord Curzon che non era un poeta, quando su questo stesso zoccolo aereo vide irrompere fuori dalle porpore d’un tramonto la mole sanguinolenta delle mura tartare di Pechino ed evocò la prodigiosa m a g n i f i c e n z a d e l l ’ a n t i c a Babilonia. Le torri a tre tetti ardono in un fuoco d’oro come tripodi giganteschi accesi in onore di una divinità tutelare. L’apice delle fiamme s’inazzurreggia nella purità del sereno, mentre le basi delle torri sono affondate nella nebbiosità sottostante di Pechino. L’occhio non vede la metropoli ma la mente ricorda 1e strade, il formicolar delle moltitudini in mezzo al fuggi fuggi dei veicoli ed il lento andar dei cammelli, il caos dei palazzi e delle stamberghe, dei cimiteri e degli accampamenti, delle costruzioni fiammanti e delle macerie secolari. Ricorda soprattutto la folla che andava e che veniva, che rigurgitava nelle piazze e che bolliva nei chiusi, vestita di sete e di stracci, microscopica e formidabile, sudicia e magnifica. Vede le turbe che gesticolavano frenetiche, che trasformavano chiassuoli e marciapiedi in mercati furibondi, che uscivano a fiumi dalle case lillipuziane e dai vicoli stretti… tutto un ammasso di reggie e di suburre, di ninnoli e di sozzure, di raffinatezze effeminate e di semplicità barbariche, di sfarzo incomparabile e di povertà senza confronto. E pare che le torri a tre tetti brucino così nell’azzurro per l’ardore di quell’immenso combustibile umano in perenne frenesia! Non si può fare a meno d’evocare 1’ubicazione pa radossa le d i questa capitale impenetrabile di un impero chiuso come una cassaforte, posta invece in un punto tanto eccentrico, a portata di mano dei tartari e dei siberiani, degli europei e dei giapponesi. Il tramonto che muta ad ogni istante la colorazione del cileo e dell’aria, della vegetazione e delle pietre, ora scoprendo desolate macerie ora accendendo mille palpiti d’oro su cupole meravigliose, sembra ricordare a chi guarda le vicende del la Cina , le invas ioni , le rivolte, i cataclismi, i crolli delle dinastie, le implacabili guerre civili, tutta la gigantesca altalena di potenza e di miseria in mezzo alla quale Pechino ha via via costruito i suoi palazzi di fata e 1i ha lasciati andare in rovina, ha tracciato i suoi parchi magnifici e li ha abbandonati al capriccio delle erbe, ha innalzato le sue muraglie titaniche e le ha lasciate sbocconcellare dal popolo perché costruisse con esse le sue piccole case. I l grande f iore d’oro che incendia l’orizzonte non resiste agli sprazzi d’incandescenza dell’astro retrostante. Qualche saetta filtra attraverso i petali stracciati e picchia sulla città invisibile. Allora la distesa verde dei parchi e dei giardini svela il segreto dei suoi truogoli e delle sue reggie. E’ difficile descrivere il giuoco fulmineo di questi fari che ora estraggono dal verde una scacchiera di casupole, ora acciuffano un monumento e lo offrono, solo, all’ammirazione di chi guarda come quei ninnoli isolati che sono l’unico ornamento di una stanza cinese. Quando i fari mitragliano i tetti color zafferano dei palazzi e dei templi della Città gialla, le palpebre battono sopra un barbaglio di topazi. Ma i1 faro si sposta. Nella lotta fra nube ed il sole i raggi investono il secondo recinto imperiale. E la Città Rossa staglia sullo sfondo del tramonto il blocco delle sue mura di sangue, impennacchiate da tetti volanti di brace. Quando il bacio di fuoco si posa sulla Città Violetta nella quale gli imperatori celavano la loro misteriosa esis tenza di pupazzi divini, Pechino è tut ta un lampeggiamento di ametiste. Gli incendii gialli, rossi e violetti s’accendono, si spengono, muoiono, divampano. A volte ardono tutti insieme. Allora Pechino sembra immensa, sterminata, senza limiti e senza fine. Nell’ammasso verdeggiante dei giardini del Figlio del Cielo l e vasche g igan tesche ed i laghi artificiali offrono al sole le raggiere dei loro specchi. Il verde uniforme degli alberi ed il grigio indefinibile degli abitanti nascondono le sozzure e le rovine. Solo splendono i blocchi color rosso cinabro dei monumenti maggiori, i tetti di zafferano e di fosforo dei templi, i pianori bianchissimi delle terrazze di marmo, gli azzurri siderei degli obelischi di Confucio, gli smalti turchini e rosati delle pagode di Buddha. Quando il grande fiore d’oro quasi si squaglia nel sole, sono cento, sono mille i proiettori che fulminano Pechino. Tutte l e a r m o n i e s i f o n d o n o i n una unica apoteosi di riflessi luminosi. Fiammeggiano gli archi trionfali, i portici, i chioschi, le fortificazioni, i laghi, i ponti, i cortili di marmo e d’alabastro, i ninnoli bizzarri di pietra e di smalto. Tutto ciò che Pechino ha di sontuoso e di magnifico arde in una cornice d’oro rovente. I bengala dei pinnacoli, le freccie accese delle guglie, le creste arroventate dei tetti, i draghi che s’accapigliano a manciate di diamanti in alto alle cupole, coronano la metropoli c o n u n d i a d e m a d i p a z z a magnificenza. Grandi gondole ardono senza fumo nel cielo fantastico di Pechino. Si vedono feluche di ministri e di ammiragli bruciare in cima a roghi violetti e cilestrini. Non è un incendio di stracci e di legname, no, no! Pare che brucino in un colossale falò i parasoli ed i ventagli, le lacche e gli smalti, i gioielli e le spade, le sete incomparabili e le pitture preziose, i codici rari e gli avorii cesellati, tutto l’indimenticabile splendore dell’antica Cina ed i versi stessi dei poeti che l’hanno magnificato nello scorrere dei secoli. Il sole morente mostra Pechino quale essa fu nei periodi di supremo apogeo, quale ancora la sognano i fumatori d’oppio quando la droga di Confucio fa dimenticare che il Mikado, figlio del Sole, è oggi un sovrano costituzionale e che la Cina dei Figli del Cielo è una Repubblica democratica. Poi basterà scendere nelle strade, in mezzo alla piccola gente ed alle sue mille case, per vedere le rovine e le miserie che il tramonto falsifica o nasconde. E la visione di Pechino sarà allora competa. Mario Appelius da Cina (Edizioni Alpes, 1926) L’AUTORE: Mario Appelius (Arezzo, 1892 – Roma, 1946), giornalista e radiocronista italiano,fin da bambino, manifestò vivo interesse per i viaggi e l’avventura; tanto che, dopo l’ennesima fuga di casa, per punizione fu costretto dal pa- dre ad imbarcarsi come mozzo su una nave italiana. Disertò anche l’impiego nella marina mercantile e cominciò a vagabondare fra Egitto, India, In- docina, Filippine e Cina. Autodidatta, durante un soggiorno in Italia ebbe occasione di collaborare con il Popolo d’Italia che gli offrì una corrispondenza in Africa al seguito di un’esplorazione in cui era stato ingaggiato come inter- prete. Da lì incominciò la sua carriera di scrittore di successo durante gli anni Trenta, grazie alla vena artistica che lo contraddistingueva per le sue fanta- siose descrizioni. Nel 1930 fondò il Mattino d’Italia di Buenos Aires che diresse fino al 1933. In seguito fu corrispondente di guerra de Il Popolo d’Italia in Etiopia e in Spa- gna. Definito un “fascista per caso”, restò fino all’ultimo fedele al regime. Durante la Seconda guerra mondiale fu radiocommentatore. Malgrado la grande popolarità delle sue trasmis- sioni, il rifiuto di negare le difficoltà incontrate dalle forze armate italo- tedesche lo rese inviso al Ministero della Stampa e Propaganda fino al suo definitivo allontanamento dal microfo- no il 20 febbraio 1943. Fra le sue opere, ricordiamo, La Sfinge nera, dal Marocco al Madagascar, 1924; India, 1925; Asia Gialla, 1926; Il cimitero degli elefanti, 1926, Cina, 1926; Le isole del raggio verde, 1929; L’aquila di Chapultepec, 1929; Nel paese degli uomini nudi, 1929; Cile e Patagonia, 1930; Da mozzo a scrittore, 1932; La crisi di Budda. Due anni fra i cinesi., 1935 ;Il crollo dell’Impero dei Negus, 1936; Al di là della grande muraglia. Mongolia, Geòl, Manciuria, Frontiera della Siberia, Corea, Kurili e Sakhalin, 1941. TUTTI I LIBRI SONO DISPONIBILI NELLA BIBLIOTECA DELL’ISTITUTO biblioteca.iic.pechino@esteri.it TUTTI I LIBRI SONO DISPONIBILI NELLA BIBLIOTECA DELL’ISTITUTO biblioteca.iic.pechino@esteri.it 6 7 习惯上,当火车正常运行 的时候,人们总是乘坐火车抵 达北京。抵京后,在古老的利 兹酒店或是新落成的大酒店安 顿完毕后,便开始按照书上介 绍的或是人们口口相传的那些 旅游心得开始了对北京的参 观。通常,北京之旅从故宫开 始。为满足游客们的好奇心, 中国已决定开放故宫,供人们 游览参观。故宫之后是雍和 宫、孔庙等等,行程结束的时 候还要参加一次由南美使团组 织的交际舞会。这样一来,我 们终于可以自我安慰地说,我 终于见到北京啦! 在旅程的最后一天,那些 感性的游客们还会去一次故 宫,做最后的告别。人们驻足 在故宫里高高的平台上,细细 地品味着这个谜一般的大都市 —北京。的确,北京城里的庙 宇、楼台已一一展现在世人的 眼前,但她内心最深处的地方 却深藏不露。不同民族的游客 在游历北京时表现各不相同。 盎格鲁撒克逊人一边聆听导游 挨个报楼阁宫殿的名称,一边 看手中的小本,核对这些地方 是否都去过了。而拉丁族人的 思绪则游离于久远而漫长的时 空中,也许想象着正在聆听来 自那些砖瓦石块、甚至是他灵 魂最深处的声音。而斯拉夫人 的眼睛则不由自主的投向城墙 的残亘断壁。漫漫岁月里,蒙 古人和满族人曾多少次向其发 起进攻,曾几何时这些城墙也 曾被外族人攻破。那些最远处 的堡垒看上去就象是平原上蜷 伏的哨兵,极目向远方眺望。 随着时间的流逝,人们对 于庙宇、宫殿以及密密麻麻的 道路的记忆都渐渐淡去,而从 城内高处眺望全城的景象则成 为记忆中唯一留存的部分。北 京是一座多元化的城市,随着 季节、时辰的不同,随着天空 中或是有云,或是有雾,随着 观察者们心情的不同,随着观 察角度的不同,北京向世人们 展示的面孔是不同的,每个人 都会形成自己独特的对北京的 印象。对某些人来说,北京是 一座辽阔而贫穷的城市,它被 一群滑稽的的戴着花翎帽子的 官员们控治着;而对另一些人 来说,北京是一座红色的由花 岗岩建成的雄伟大都市;还有 一些人认为北京是一座巨大的 坟墓,人们拥挤在一起,渐渐 地腐化。所有这些印象都符合 北京的现实,它们都是北京某 一方面的特征和体现。但只有 那些在北京城里居住过一段时 间的人,而且他们不能只蜗居 在北京城里的使馆区内,只有 这样,他们的视野才能囊括北 京的不同侧面,才会对北京有 一个全面的认识,而这些才是 真真正正的特色北京。 以我为例,我是穿越西北 部荒凉辽阔的平原而来到北京 的。当黄昏给北京披上了金色 的绸缎的时候,我在城内高处 欣赏着这座大都市古老的庄 严。也许你们会认为我之所见 具有很强的欺骗性,但是不管 你们怎么想,我之所见比其他 任何一种所见都能更好地让我 们去理解北京,去理解她的楼 台、她宏伟的庙宇、她荒芜的 禅寺、她废弃的园林、她的断 壁残垣,她的黄金与粪土,她 精美的漆器与渣土,她充满活 力的城区以及那些死气沉沉的 地域。在这片土地上,光辉与 腐朽共存。 抵 达 这 座 天 子 之 国 的 首 都,我走的是水路,并没有坐 火车。我们的小船在运河上慢 悠悠地摇着。运河的两岸是暗 红色的矮墙,它蜿蜒地穿越过 大片的流域,一望无垠,一直 延续到远处城墙的脚下。 春天,环绕京城的池塘里 开满了荷花,象是给北京戴上 了一串精美馨香的项链。古时 候,当侵略者们在进攻之前, 他们得首先战胜这道花的城 墙,它们让侵略者的灵魂受到 很大的震动。传说侵略的士兵 被这些神圣的花朵所震慑,而 不攻自退。水里到处漂着红色 和白色的花朵。黄昏中,这座 古都如同被一圈玉石所缠绕。 最左边的城墙颇具巴比伦风 格,其突兀如船首,城墙上的 城垛看着十分奇怪,有点象杂 技小丑头戴的王冠,远远看见 的还有那高大的城门。 八 月 的 池 塘 里 还 没 有 荷 花。只是在某些角落里从水 面下钻出一些含苞待放的花骨 朵,它们刚刚从水下羞涩的窜 出,还是那么的苍白而透明。 池塘的其他地方残败不堪,泛 着灰色、暗红色和绿色的死 水。那些被太阳晒干的地方露 出一片片发霉的霉地。目之所 见,尽是残败破损的城墙, 运河流过的两岸可以见到有白 塔、大门、塌陷的楼、坍塌的 住宅、长满荒草的园子、干涸 的水池等等,百弊凋零,这些 景象让人感伤不已,如同是在 坟墓中穿行。 我们终于得以在一处快坍 塌的河岸边停船,没有人来接 我们。这里只有一尊佛像,石 佛半闭着眼睛。过往的路人很 少,没人注意到我们,除了有 些人好奇看一眼我们带来的蝴 蝶,它半合着翅膀。有北京城 里,谁会注意一艘靠岸的小船 呢? 一下船,我们就坐着人力 车进入一条又直又长的大路, 辽阔的北京有许多这样的路。 这座东方的大都市很快将我们 纳入它巨大的怀抱中。这里有 很多往宅,外观都毫无差别; 这里有许多道路,每一条都很 长,条条都一样。我们穿过荒 无人烟的地方,这里看上去似 乎是几个世纪都没人居住,而 另有一些地方则人满为患。时 不时的,我们在经过住宅后, 能看到一片片的菜园和堤田, 有时还能看到一片片的墓地和 茅草房,以及一段段的城墙。 太阳要落山了,美丽的黄 昏即将到来。我让人力车径直 带我到城北的高处来,我想在 这落日的余辉中,在我对刚刚 经过的池塘那衰败的景象还记 忆尤新,心中还带着感伤的时 候,俯看一下整个北京城。 车夫拉着我自东向西穿过 城市,我们一会儿穿行在路 上,路两边是树脂色的屋子, 一会儿在穿行在肮脏的小胡同 里。我们还经过了四个巨大的 水泥建筑,看到它们,让人想 起纽约。之后我们来到一大片 破旧的居民区内。这些破旧的 房子一个挨着一个,或者更准 确地说是一个架着一个,好象 是堆在一起的垃圾,等着想象 中的大船将它们统统运走。走 着走着,我看见眼前这番景 象:地面上扎着帐篷,帐篷 之间有骆驼,有成群结队的人 马,人们穿着皮衣,地上堆着 枪和矛,火堆边围坐着女人和 士兵。这应该是北方的草原和 战场景象,看到这样一幕,我 不禁怀疑我的车夫是不是走错 了路。渐渐地,在最后一座 帐篷和茅屋之间出现了两排高 楼。这提醒我们,我们一直都 在北京!经过一个小菜园,一 座巨大的庙宇突然映入眼帘, 我不禁抬起眼看着一座那鱼尾 状的塔尖。在右边,有三个土 屋在风中摇摇欲倒;在左边则 是一个蓝色的孔庙塔。接着, 我又看见许多的破屋、小路、 商铺和密密麻麻的人群。 随着我们越走越远,城市 里总是奇迹般的浮现出高大的 新建筑,似乎是有着什么魔幻 的机关慢慢地揭开神奇的幕 布。也许那些在街上和广场上 的这些大众正在操纵一个神奇 的机器主宰着这一切的发生? 北 京 城 的 轮 廓 越 来 越 近 了,也显得越来越高了。巨 大的城墙轮廓突现出来,它有 着突出的棱角和不同形状的城 垛。再近点还能看到巴比伦风 格的城门,城门被两边低矮的 城垛守卫着,威严庄重。 在两城塔之间有块粪地, 奇臭无比。一群骨瘦如柴的人 在附近的垃极堆里刨着,想找 点能吃的东西填肚子。阳光下 这块粪地在小树丛间发着绿 光。另有一块粪地一直延伸到 一座城堡与一个奇形怪状的了 望楼之间。再远一点的地方, 可以看到皇宫的庭台,之间有 阶梯相连,庭台上立着华盖。 这一眼望去,有精美的建筑, 还有破败的废墟,各种景象尽 收眼底。皇宫内的巡逻队在城 墙之间来回的走着。 我倚着栏杆向远方望去, 我在寻找北京。然而,我却看 不到她。映入我眼帘的是那令 人难忘的日薄西山的金色全 景,四周是宏伟的城墙,而我 却看不到北京。在城墙之下是 庭院,是园林,是反射的阳光 和漫天的尘雾。 北京在哪呢?我问我的向 导。 向导伸出手指了指远处的 园林和尘土,指了指被夕阳染 成红色的城墙,指了指落日的 余辉,似乎在告诉我这就是北 京。 他 这 一 指 似 乎 指 出 了 一 切,又似乎什么也没指出来, 我也说不出别的更多的东西。 但我确信如果我向你们一个一 个的描述北京城里的宫殿,它 们中有供皇帝消夏的,有供皇 帝过冬的,有供王子王孙居住 的,有的则是大臣们的官邸; 如果我向你们一个一个地介绍 寺庙和孔子庙、老子庙或是风 神庙水神庙;如果我向你们描 述楼台、藏书楼和使馆;如果 我向你们描述内城、外城和紫 禁城;如果我向你们描述雍和 宫、金銮殿、天坛、翰林院, 所有这些具有北京特色的场 所,这些是每一个到北京参观 的游客的必经路线,也正是 我在这里向你们粗线条做介绍 的,诸如这近处的城墙,远处 的塔尖,飞翔的小鸟以及逝去 的幽灵,但这种介绍是无法给 你们提供一个完整而清晰的北 京印象图的。北京她的的确确 在我的眼前,而北京又似乎完 完全全的不存在。 我们不能以看纽约的方式 来看北京。我们是在一个有着 四五千年文明史的古国的首 都,她为全人类都做出了杰出 贡献,她是著名的丝绸之国、 大米之乡,她发明了火药和农 业化学,她通过孔子的儒家学 说很好地解决了神灵的问题… 在凝望北京遗迹的时候,我们 绝不能忽略她的历史,否则我 们对北京的印象是不明晰的, 我们很可能认识不到事实的真 相。每当我们离北京很遥远的 时候,我们在想像着北京,我 们总是半闭着眼睛,想像着她 的丝绸、大理石、中国龙、长 长的队列,想像着黄金、漆 器,想像着皇宫里那精美的华 盖。审视北京的最好时候是夏 日的傍晚,当黄昏把这东方 古国装典的珠光宝气,异彩纷 呈,一如我们梦里的北京。 我 在 一 处 露 台 的 石 基 之 上,这里也曾是皇帝们驻足 欣赏他们帝国美景的地方。周 围是一圈城墙和各种奇异的装 饰。我的前方是一团明亮的尘 雾,这就是北京。这团雾怎么 也散不开,它们如此浓郁的结 积在一起,才给人充分的想像 空间。在石基之上,在那看不 清真面目的城市之上,黄昏 中,似有一个神奇的巨大华盖 在飘荡,它把几百年前马可波 罗对中国的礼赞和中国朝廷对 祖国的颂歌活生生地展现在我 们的眼前。 这个华盖就是那辽阔的天 空。天空中的云形态万千,似 龙,似花,似城堡,似战场。 天空象是绣满了菊花、荷花、 杜鹃等无数花朵。你看那一片 天空满是紫藤与樱花,而另一 块则满是幻化为各种几何图形 云彩,有珊瑚色的,有藏红花 色的。传说中叙述的一切,博 物馆里收藏的皇宫里精美的服 饰,所有丝画里和书里描绘的 一切奇景,你都可以在天上的 云中找到。不要觉得惊奇,这 天空中的华盖完全配得上北京 那悠久的历史和赫赫的声名。 一大朵白云渐渐遮住了太 阳,太阳不见了,但它的光 和热把云变成了一朵巨大的 金花,每时每刻都在改变着形 状和颜色。马可波罗在描绘那 座可汗的大都市时,应该领略 过北京;耶稣会的格里马第在 写北京有六百万人口的时候, 也应该注视过这个大都市。你 看那城墙上的城垛整齐地排到 着,就象是大大小小的官员们 排着整齐的队列朝觐庙宇,而 在太阳的幻影中,这个队列似 乎分散了。此时此刻,我把以 北 京 印 象 北 京 印 象 TUTTI I LIBRI SONO DISPONIBILI NELLA BIBLIOTECA DELL’ISTITUTO biblioteca.iic.pechino@esteri.it TUTTI I LIBRI SONO DISPONIBILI NELLA BIBLIOTECA DELL’ISTITUTO biblioteca.iic.pechino@esteri.it 值中华人民共和国成立六十周年之际,我们决定刊登一系列二十世纪意大利旅行家和学者的文选。 这些文章的内容不代表本处观点,但我们认为历史的记忆是文化组成中不可磨灭的一部分。 ——编者按 8 9 前读到的关于北京的东西都已 忘得一干二净,把前人所写的 关于北京的兴衰史也忘得一干 二净。我只记得罗德古宗对北 京那充满激情的描绘,他并非 一位诗人,他也曾在这块石基 上眺望北京,他看到被落日余 辉染成红色的城墙,这让他想 起了古代巴比伦的壮丽与雄 浑。 古老的城垛似乎在金色的 火海中燃烧,就好象是为祭神 灵而燃烧的香炉。在燃烧最旺 的时候,火舌渐渐变成蓝色, 而城垛的底部却是在一片雾霾 之中。眼睛已看不见近在咫尺 的都市,而脑海里却清晰的记 着它的所有街道,它的车水马 龙,骆驼缓慢的前行,高楼和 陋室中的喧嚣;记得这里的坟 场,记得这里的破败的草棚, 这里簇新的建筑以及那经世的 废墟。尤其记得这里的人来人 往,人山人海,记得这里的锦 衣华缎和破衣滥衫,记得这里 的精美绝伦与污秽不堪。看见 这里的人一帮一伙打着手势说 着话,在马路牙上摆摊叫卖, 看见人们从各处的家中和狭窄 的小巷道中涌出来。这里汇聚 着巍峨的皇宫,但也有坍塌的 草房,有超凡的优雅,也有 世俗的粗鲁,有无与伦比的奢 华,也有难以想像的贫穷。城 垛在太阳的光辉下在尽情的燃 烧。 说到北京,这样一座象保 险箱一样的封闭的大都市,我 们不能不提到她的地理方位。 事实上,她地处一个较偏的位 置,距离鞑靼、西伯利来、欧 洲及日本都不甚遥远。黄昏改 变着每一时刻天空的颜色、 大气的颜色、树木的颜色和石 头的颜色,夕阳照在落寞的废 墟之上,让漂亮的房顶闪耀金 光,它似乎是在提醒那些正在 观注北京历经的侵略、起义、 灾祸、朝代的变迁、连绵不息 的内战的人们,正是在权力与 天灾人祸的交织中,北京一步 步地建造了如此之多的宏伟建 筑,却又渐渐地将之废弃;北 京构建了美丽的园林,却又听 任它们长满荒草;北京建造了 高大的城墙,又听任百姓将之 一点点的折毁来盖自己的小 家。 点亮天际的巨大的金花抵 挡不住阳光的穿射,几线阳光 穿过花瓣,直射到这座看不见 的城市上方来。当光线射到皇 宫里,穿透宫殿庙宇那藏红色 瓦片的时候,所见之处皆是金 光闪闪。不一会儿白云遮住了 太阳,过一会儿艳阳又穿云而 出,在这样的争斗中,阳光射 在了皇宫的内城之上。这里一 切皆为红色。再过一会,阳光 射到紫城之上,这是皇帝们居 住的场所,最为私密的地方。 这时的北京就成了一块晶莹的 紫玉。就这样,黄色、红色和 紫色相继点燃,又相继熄灭、 消失。有时候所有这些颜色一 起燃烧,北京变得无比辽阔, 一望无疆。 在皇宫内绿色的园林里, 巨大的水池和人工湖反射出太 阳的光芒。青绿的树林和老百 姓的灰布衣衫掩盖了这里的污 浊和残破。朱红的建筑、藏红 的庙宇、汉白玉的平台、深蓝 的孔庙,红蓝相间的佛塔在阳 光下熠熠发光。 当天空中巨大的金花在太 阳中完全融化的时候,千万缕 金光射向北京,回廊、拱门、 城垛、湖泊、桥梁、庭院,各 种石制的和珐琅的摆饰品都在 闪闪发光。北京城所有的一切 庄严而奇妙的东西都沐浴在炽 热的金色阳光中。 金光下的塔尖的、山峰、 戏珠的龙雕似乎给北京戴上 了精美的王冠。北京的天空 好象有巨大的船在燃烧,却不 见一丝的黑烟。天空中似乎又 可见清朝的文官武将的顶戴花 翎也在燃烧。这里燃烧的可不 是布头或是木块,这里烧的是 华盖、屏风、漆器、珐琅、 珠宝、利剑、丝绸、名画和象 牙,以及所有那些中国古代的 精美文化遗产以及在岁月的长 河中使中国文化辉煌灿烂的文 人墨客的诗词歌赋。日薄西山 的太阳向我们展示了曾有着最 为灿烂的文明的北京,展示了 今天那些鸦片的吸食者们还梦 想着的北京,而此时,深受儒 家思想影响的中国人都忘了自 已的国家已是中华民国。 只要我们走到街上,走到 普通百姓之中,走到他们的家 里去看看这黄昏美景掩盖下的 贫穷与苦难,我们对北京的印 象就会更为完整。 马里奥·阿佩里乌斯 Mario Appelius 选自《中国》 Edizioni Alpes, 1926年 于雪风 译 IO E CORTO Di Pascal Morelli Siamo nel 1919. Che cosa racconta quest’albo? Per me è innanzi tutto la storia di un cambiamento epocale. La Siberia è anche la fine della Prima Guerra Modiale. La maggior parte dei protagonisti incontrati dal Mal- tese sono alla fine della loro strada, come nel film Il mucchio selvaggio di Sam Peckinpah o in Il mio nome è nessuno, in cui si consacrea l’eroe nel XX secolo. E Corto in tutto ciò? Pratt inizia la sua storia con un uomo che torna a casa e non ha più voglia di muoversi. Ma il destino decide diversamente. In Pratt le azioni sono sempre fulminee. La violenza è un atto disperato. Per il Maltese è l’ultima arma. Quando i personaggi ne fanno uso, hanno la faccia provata, diventano brutti, non sono neanche tanto bravi a battersi. Non sono maestri d’arti marziali, di pugilato, o tiratori scelti. Non sono supereroi. Sono uomini che si battono per vincere. E questo qualunque sia il modo o il mezzo usato. 北 京 印 象 作者简介: 马里奥·阿佩里乌斯(阿雷佐, 1892 - 罗马,1946),意大利记 者和广播节目主持人。从孩提时 代,他就表现出对旅行和探险的浓 厚兴趣;多次离家出走后,作为惩 罚,他的父亲把他强行送上一艘意 大利轮船当水手。而他也抛弃了这 份工作,开始流浪,先后到过埃 及、印度、印度支那、菲律宾和中 国。他自学成材,在意大利停留期 间,通过一次偶然的机会与《意大 利人民报》合作,从而得到一份该 报社驻非洲记者的职位,他的作家 生涯由此开始,得益于自身独特的 艺术气质和梦幻般的写作风格,他 成为三十年代最成功的作家之一。 1930年创建《布宜诺斯艾利斯意大 利晨报》,并担任主管直至1933 年。后任《意大利人民报》驻埃塞 俄比亚和西班牙战地记者。他被定 义为“意外的法西斯主义者”,并 作为忠实追随者直到最后一刻。二 战期间,成为电台评论员。尽管他 的节目非常受欢迎,但由于拒绝否 认德意联军作战不利的事实,触怒 了新闻宣传部, 1943年2月20日他 永远离开了电台的工作。 他的作品包括:《黑色斯芬克斯, 从摩洛哥到马达加斯加》,1924 年;《印度》,1925年;《黄色的 亚洲》,1926年;《象之坟墓》, 1926年,《中国》,1926年;《绿 光岛屿》,1929年;《查普尔特佩 克之鹰》,1929年;《赤身裸体的 国度》,1929年,《智利和巴塔哥 尼亚》,1930年,《从水手到作 家》,1932年;《佛的危机。与中 国人在一起的两年》,1935年; 《尼加斯帝国的崩溃》,1936年; 《长城的另一边。蒙古、热河、满 洲里、西伯利亚边境,高丽,库页 岛和萨哈林岛》,1941年。 TUTTI I LIBRI SONO DISPONIBILI NELLA BIBLIOTECA DELL’ISTITUTO biblioteca.iic.pechino@esteri.it TUTTI I LIBRI SONO DISPONIBILI NELLA BIBLIOTECA DELL’ISTITUTO biblioteca.iic.pechino@esteri.it 10 11 TUTTI I LIBRI SONO DISPONIBILI NELLA BIBLIOTECA DELL’ISTITUTO biblioteca.iic.pechino@esteri.it TUTTI I LIBRI SONO DISPONIBILI NELLA BIBLIOTECA DELL’ISTITUTO biblioteca.iic.pechino@esteri.it 12 13 TUTTI I LIBRI SONO DISPONIBILI NELLA BIBLIOTECA DELL’ISTITUTO biblioteca.iic.pechino@esteri.it TUTTI I LIBRI SONO DISPONIBILI NELLA BIBLIOTECA DELL’ISTITUTO biblioteca.iic.pechino@esteri.it 14 15 TUTTI I LIBRI SONO DISPONIBILI NELLA BIBLIOTECA DELL’ISTITUTO biblioteca.iic.pechino@esteri.it TUTTI I LIBRI SONO DISPONIBILI NELLA BIBLIOTECA DELL’ISTITUTO biblioteca.iic.pechino@esteri.it 16 17 Da quando sono stato in Cina, penso che l’uomo non esiste: esi- ste la razza umana, innumerevole. In Europa, per vivere, basta saper contare fino a dieci. Non è neces- sario saper contare oltre una cifra ragionevole. Io so, per esempio, contare senza sbagliarmi fino a un milione e cinquecentomila. Altri fino a trecentomila. Altri, molti altri, fino a dieci. In Cina, se vuoi vivere, devi saper contare fino a cifre astronomiche. Ho sempre avuto per il lavoro un profondo rispetto. È certa- mente una forma di schiavitù. Bisogna che l’uomo lavori, se vuol mangiare, se vuol vivere. In Cina, non è (non sembra) neces- sario. Non sembra (non è) una schiavitù. Il cinese lavora anche quando non fa nulla. Ozia anche quando lavora. Sembra che il suo lavoro sia per lui una occupazio- ne naturale: non un passatempo. Lavora come respira. Fa sempre qualcosa. Quando non ha nulla da fare, fa quel nulla da fare. Davanti a Tien An Men, a Pekino, ho visto un uomo di una quarantina d’anni che lucidava le rotaie del tram. Ho domandato al mio interprete, Hong Sing, se era quello il suo mestiere. Mi ha risposto che non sapeva, né credeva. Interrogato, l’uomo ha risposto che lucidava le rotaie del tram per suo piacere. Gli piaceva che, in quel punto, le rotaie luccicassero. I cinesi non concepiscono gli animali senza zampe. Tutti gli animali hanno zampe. Il serpente, o dragone, ha anch’esso quattro zampe. I cinesi (hanno paura del) il viso umano. Lo coprono con maschere orrende. Gli attori hanno maschere. Gli imperatori, gli eroi, gli angeli (i guardiani del cielo, delle tombe). Solo il pove- ro, il contadino, ha il viso nudo. I pittori cinesi non dipingono mai il cielo. Dove è il cielo, la- sciano la tela nuda. Vi dipingono il sole, o la luna, rotondi, rossi. Intorno la tela nuda, un cielo sen- za nuvole, senza stelle. Talvolta un uccello attraversa la tela nuda, quel cielo vuoto. 1) Per narrare il mio viaggio in Cina, dovrei fare come Turbine Nero. Nel teatro classico cinese, vi è una figura di eroe popolare, chiamata Turbine Nero. Ha una gran barba nera, è tutto vestito di nero, porta una lunga tunica nera orlata di farfalle d’oro. Ha in testa un’alta berretta di seta nera. È l’eroe simpatico, leale, bravo, onesto, buono, un po’ millantatore, sanguigno, burlone. Ha un solo difetto, gli piace bere. Ho assistito alla rappresentazione dell’Opera di Pekino: il Turbine Nero era interpretato dall’attore Li Konei. Durante il suo viaggio dalla montagna, dove vive rifu- giato con i suoi otto compagni ribelli, fuorilegge (il fatto si svol- ge sotto la Dinastia Ming), al suo villaggio natale, egli racconta il suo viaggio, descrive i paesi che attraversa: il bosco, gli uccelli, la collina, il ruscello, il fiume che scorre fra ciottoli bianchi, i salici lungo la strada, i fiori di pesco che l’acqua del ruscello, mormo- rando, trae con sé. E inutile che io descriva le cose che ho visto durante il mio viaggio in Cina: le ha già viste e descritte Turbine Nero. Dirò solo quel che non ha visto Turbine Nero. La Cina è coperta di salici: dove c’è acqua, vi sono salici piangenti. Il salice ha una grande importanza nella vita cinese: per lodare le sopracciglia di una don- na, i cinesi dicono che ha le so- pracciglia come una foglia di sali- ce. Un cinese fa sempre tutto quel che fanno gli altri. Voglio dire che fanno tutti la stessa cosa. Il loro non è un lavoro individuale, lavo- rano tutti insieme alla stessa cosa. Se un cinese raccatta da terra un chicco di miglio, tutti i cinesi si chinano a raccattare un chicco di miglio. Questo è il raccolto del miglio. Quel che fa pensare che i cinesi faccian tutti la stessa cosa, è il fatto che son tutti contadini, tutti lavorano la terra. E poiché tutti i cinesi son d’ori- gine contadina, o son contadini, nelle città della Cina gli operai lavorano tutti come se fossero contadini: voglio dire che davanti alla macchina, i loro gesti son quelli di un contadino, non di un operaio. Ho visto tessitori e tessitrici al lavoro: raccoglievano la spola caduta in terra, come se raccogliessero un frutto caduto dall’albero. Fanno il raccolto del- la tela di cotone, come i contadini raccolgono nei campi il cotone. Con gli stessi gesti. I guidatori del tram, guidano i tram come i con- tadini guidano un carro. I ciclisti vanno in bicicletta come contadi- ni che vanno a piedi: lenti, attenti, guardinghi. Un po’ sospettosi. Gli spazzini nelle città sembra spaz- zino il cortile della propria casa, spazzino il campo: raccattano fogli di carta e rifiuti come er- bacce da un orto. Ho visto molte volte centinaia di operai sparsi su per le impalcature di un grande edificio in costruzione: la parte dell’edificio è verticale. Se fosse orizzontale (il che appare chiaro quando lavorano su un tetto) avrei pensato che fossero contadini in- tenti a lavorare la terra. Il solo difetto dei cinesi è che non amano gli animali. Li trattano come i signori trattavano loro. TURBINE NERO TUTTI I LIBRI SONO DISPONIBILI NELLA BIBLIOTECA DELL’ISTITUTO biblioteca.iic.pechino@esteri.it Per non morire di disperazione, i cinesi han bisogno di qualcuno che stia peggio di loro. I cinesi mangiano tutto. Non esiste cosa nella natura che non si siano mes- si in bocca. Mangiano i germogli dei bambù, la pelle rugosa delle dita dei polli e delle anatre, man- giano certi funghi che appaiono come macchie scure sulle pietre e sui tronchi degli alberi. Mangiano certi insetti che noi schiacciamo sotto la suola delle scarpe. Nelle liste delle vivande dei ristoranti di Canton non mancano mai la “zuppa di tigre e di dragone”. È eccellente: la tigre è il gatto, il dragone è il serpente. La sola cosa che i cinesi non mangiano, e non so perché, è l’uomo. Benché sappiano che è buonissimo (una carne finissima). 2) Nel narrare il mio viaggio in Cina, dovrei forse fare come i pit- tori cinesi, che descrivono tutto, dipingono tutto quel che vedono, e vedono tutto. Non dimenticano nulla. La barba dell’Imperatore Wu, della Dinastia Han, aveva ottomilatrecentoventidue peli. Me lo ha detto un pittore, che ho incontrato da Ci Pai Sci, che li ha contati. Non farò né come Turbine Nero, né come i pittori cinesi: dimenticherò molte cose fra quelle che ho visto, ma quelle che ricorderò le avremo viste soltanto Turbine Nero, i pittori cinesi, ed io. Ad esempio, gli uccellini che si limano il becco alle foglie dei salici. I cinesi sono sensibilissimi ai colori, hanno un gusto straor- dinario nella scelta dei colori. I negozi, ad esempio, sono spesso decorati di bandierine rosse con le cinque stelle d’oro, che è la ban- diera della Repubblica della Cina. Ma quel rosso è quasi sempre più chiaro del rosso della bandiera, molte volte è rosa, molte volte è rosaviola, o cremisi, o rosa lam- pone. Ma la differenza del colore non impedisce che la bandiera sia rossa. I cavalli cinesi hanno la testa diversa da tutti gli altri cavalli del mondo. (Cavalli mongoli della Dinastia Yuen, nel Museo del Tempio del Tamburo a Sian, ca- valli Tang a Sian, i 6 cavalli feriti, cavalli alle Tombe dei Han presso Sian, cavalli delle Tombe Ming.) Hanno la testa fatta come nelle statue, nei disegni, e nelle pitture della Dinastia Tang. La donna ci- nese è fatta in modo un po’ diver- so da come son fatte tutte le altre donne. Ha il buon gusto, le gambe corte, ha le spalle cadenti, il seno perfettamente rotondo, come una mezza sfera. I cinesi non hanno peli sul corpo, sono glabri. Mi è capitato più volte, in treno (da Ta Tung, nello Shansì del Nord, a Pekino), negli autobus, che un cinese mi prendesse la mano, e osservasse con grande curiosità e meraviglia i peli della mia mano. Questa è la ragione per cui gli eroi, nel teatro classico cinese, hanno barbe immense, fluenti fino al ventre e fittissime. I cinesi attribuiscono agli eroi, come un attributo eroico, i peli che essi non hanno. I cinesi fan tutto con le loro mani. Hanno mani sapientissi- me, espertissime. Sono operai eccellenti, forse tra i migliori del mondo, specie per le macchine complicate e delicate. Ma questo nasce dal fatto che la macchina è prolungamento di quel congegno complesso e perfetto che è la mano cinese. Hanno mani picco- lissime. Il giorno che ho stretto la mano a Ciu En Lai, mi è sembrato di stringere la mano di un bambi- no. E sì che io ho le mani piccole. A teatro, nell’opera classica, fa senso veder uscire quelle piccole mani da bambino morto fuor delle immense maniche di broccato. Fa senso veder quelle piccole mani impugnare spade così grandi. Specie nelle pitture e in teatro. Gli attori e le attrici dell’opera classica, cantano in falsetto. Con quelle mani così piccole, non pos- sono cantare che in falsetto. In Cina, quando il sole tramon- ta, non è la notte che nasce. Ma qualcos’altro. Una specie di gior- no notturno. La luce rimane nelle case, come un attributo proprio. Il sole, tramontando, si porta via la propria luce, ma gli alberi, le foglie, le pietre, le tegole di por- cellana dei tetti, rimangono con la luce loro. I primi giorni credevo ci fosse la luna in cielo. Non c’era la luna. Quel chiarore lunare, eran le case che lo spandevano. Questo fatto ho osservato la prima volta nella valle dove sono le tombe dei dodici imperatori Ming. Il sole era già calato da un pezzo, ma l’aria era chiara. Le montagne eran trasparenti. Osservate le tele dipinte dagli antichi pittori cinesi: quando dipingono la notte, anche la notte senza luna, la dipingono sempre chiara, luminosa. La not- te, in Cina, la terra è di giada, il cielo è di turchese. Che son pietre notturne. Il pallore dei visi cinesi (i cinesi sono pallidi, non gialli) è luminoso, la notte. Son i visi della folla che, la notte, illuminano le strade di Pekino, non le insegne luminose dei negozi. I cinesi sono ordinatissimi, mi- nuziosi nella cura che essi hanno dell’ordine. Nelle case cinesi, non v’è mai un oggetto fuori posto, mai uno strappo, in una tendina, una piega in una tovaglia, qual- cosa di sgualcito in una tela, in una stoffa, in un lenzuolo, in una tunica di cotone o di seta. Perfino la carta straccia, non è sgualcita. È stracciata, non sgualcita. (Storia della ragnatela rammendata.) Curzio Malaparte da Io, in Russia e in Cina (a cura di L. Martellini, 1991) TUTTI I LIBRI SONO DISPONIBILI NELLA BIBLIOTECA DELL’ISTITUTO biblioteca.iic.pechino@esteri.it 18 19 Di tutto ciò non vi è traccia nella storia della Cina Popolare. Nel corso stesso della Rivoluzione culturale – che qualcuno, sempli- cisticamente, ha paragonato a una grande «purga» di tipo staliniano - non ci sono state persecuzioni né violenze di tipo poliziesco. Nella famosa risoluzione in sedici punti con cui il comitato cen- trale del PCC diede le direttive fondamentali della Rivoluzione culturale si legge addirittura: «È inammissibile forzare a sottomet- tersi la minoranza che sostiene punti di vista diversi. La mino- ranza deve essere protetta perché a volte la verità sta con essa». E ancora: «Nel dibattito bisogna ricorrere al ragionamento e non alla costrizione o alla forza». Le persone sottoposte a critica né sono state imprigionate né hanno perso il posto o il pane. I quadri che sono stati mandati a «riedu- carsi» in campagna, tra i conta- dini, non sono stati privati della loro libertà. I criticatissimi pro- fessori dell’Università di Pechino sono rimasti tutti in forza alla stessa università: se appartengono a facoltà tuttora chiuse, lavorano a preparare i nuovi programmi. I dirigenti di fabbrica criticati per i loro metodi non sono rimasti tutti in posizioni direttive, ma lavora- no per lo più nella stessa fabbrica, come tecnici, impiegati o operai. C’è stato anzi, è ancora in corso, un certo «ricambio» degli iscritti al partito: ma perdere la tessera non significa, in Cina, per- dere l’impiego. E il dirigente ope- raio della Rivoluzione culturale a Shanghai di cui abbiamo parlato in un precedente capitolo non è ancora iscritto al partito. Di metodi staliniani, insomma, non c’è l’ombra. C’è un «culto» esteriore della persona di Mao Tse Tung: culto che nelle sue esage- razioni – secondo testimonianza di Edgar Snow - darebbe fastidio allo stesso Mao. Ma se proprio si debbono tentare paragoni, esso non somiglia tanto al «culto» sta- liniano, quanto alla venerazione che i sovietici tributano a Lenin e che pure assume a volte aspetti di «culto». Per l’appunto non va dimenticato che Mao Tse Tung non è lo Stalin della Rivoluzione cinese: è il suo Lenin. Mao e il «pensiero di Mao» Masse sterminate di contadini identificano in Mao il loro libe- ratore dalla schiavitù dei proprie- tari fondiari, dalla miseria, dalla arretratezza tradizionale delle campagne asiatiche. Il paese vede in Mao il liberatore della Cina dall’imperialismo, l’iniziatore del cammino che porterà la Cina a raggiungere il livello dei paesi più avanzati. È il loro Lenin e, a differenza di Lenin, non è morto subito dopo la rivoluzione: è un Lenin vivo. Su un sentimento cer- tamente autentico di ammirazione si inseriscono poi gli eccessi di una propaganda che non misura né le parole né i toni, e finisce per avere qualcosa di ossessivo, a cui s’intreccia però qualcosa che non è «culto» né propaganda: la diffusione del «pensiero di Mao Tse Tung». Solo un osservatore superficiale potrebbe confondere le due cose, privandosi così della possibilità di osservare uno dei fenomeni più interessanti della Cina d’oggi. I cinesi rifiutano, anche con una certa energia, il termine maoismo. Non vogliono sentir parlare di maoisti. Nel corso della rivoluzione culturale, a Shangai, venne fuori una volta il termine maotsetunghismo, ma fu lasciato rapidamente cadere. Nei loro discorsi, negli articoli di giornale, nei documenti politici, da cui è inseparabile una certa liturgia, i cinesi fanno una netta distinzione, anche nomenclatoria, tra «il pre- sidente Mao Tse Tung» e «il pen- siero di Mao Tse Tung». In questa seconda espressione il nome di Mao Tse Tung, se non abbiamo sbagliato a capire, ha grammati- calmente il valore di aggettivo: la persona tende a sparire. Sarà per questo che i nostri interpreti, traducendo in italiano, usavano la espressione maotse- tung-pensiero. E così la scrivono, tutta attaccata, nelle pubblicazioni in italiano curate direttamente in Cina. Debbono essere stati mal consigliati, perché alle nostre orecchie il neologismo maotse- tungpensiero ha un suono orribile. Ma lasciamo pur perdere la linguistica: ci basti far notare che si parla, in Cina, del «pensiero di Mao Tse Tung» come di un og- getto o di un concetto, unico e se- parato dalla persona. E vi si parla, dalla Rivoluzione culturale in poi, di «marxismo –leninismo- pensie- ro di Mao Tse Tung» per indicare che si tratta di uno sviluppo della teoria rivoluzionaria. A noi non tocca nemmeno analizzare se, e in che misura, il «pensiero di Mao Tse Tung» sia un autentico sviluppo del «mar- xismo -leninismo»: cosa che a noi può sembrare senz’altro vera, ma non ci sentiamo titolati a di- mostrare. Qualcuno ha sostenuto che si tratta, più semplicemente, di una «sinizzazione del marxi- smo», ossia della applicazione del marxismo alla realtà cinese. L’espressione è stata usata dallo stesso Mao Tse Tung, nel 1938 (Rapporto al sesto plenum del co- mitato centrale): «La sinizzazione del marxismo, cioè imprimergli in ogni manifestazione il segno delle particolarità cinesi e appli- carlo quindi in conformità alle particolarità cinesi è un problema che tutto il partito deve compren- dere e risolvere senza indugi». Ma questo, a distanza di tempo, TUTTI I LIBRI SONO DISPONIBILI NELLA BIBLIOTECA DELL’ISTITUTO biblioteca.iic.pechino@esteri.it Una visita alla Mostra storica del Partito Comunista Cinese a Canton Esiste nella Repubblica Popo- lare un «culto della personalità»? Un «Lenin vivo» -Il termine «maoismo» è rifiutato Le citazioni preferite entrano nel linguaggio comune La Mostra storica del Partito comunista cinese occupa a Can- ton due piani di un vasto edificio. È stata inaugurata nel 1969 e vi- sitarla è indispensabile, oggi, per chi voglia farsi una idea di come i comunisti cinesi giudichino la storia del loro partito dopo la Rivoluzione culturale. La mostra in effetti non è un documentario neutrale, ma un atto politico. Vi si trovano, in gran numero, anche oggetti curiosi e interessan- ti, intorno ai quali sostano a lungo frotte di ragazzini: i rastrelli e le picche dei boxers, il mortaio di legno utilizzato nel ‘27 dagli in- sorti di Canton, le scarpe di paglia in uso nelle armate contadine, un singolare erbario delle bacche e dei legumi selvatici di cui si ciba- vano i soldati della Lunga Mar- cia. Molte le fotografie inedite, i facsimili di famosi manoscritti di Mao. E c’è la prima edizione cinese di «Evoluzione ed etica», di Huxley, un libro che interessò moltissimo Mao giovane e che di recente ha trovato posto tra le pochissime ristampe con cui l’at- tività editoriale sta riprendendo, dopo la Rivoluzione culturale. Ma il filo su cui corre la mostra è più ideologico-didattico che illustrativo. Il discorso essenziale si svolge come esaltazione della «linea corretta di Mao Tse Tung» e del modo in cui essa si è venuta affermando coerentemente in tutti gli atti e le parole del presidente, di decennio in decennio. La figura di Mao La figura di Mao domina da un capo all’altro le grandi sale, onnipresente e solitaria. Fuga- cissime apparizioni vi fanno Lin Piao, Chu En-lai, Chu Deh. Innu- merevoli le fotografie di Mao, i quadri che lo ritraggono nei vari momenti della sua vita e delle sue lotte: quadri anonimi, tutti intonati a un realismo del tipo che piaceva a Stalin. Si pensa, anche a non volerlo, alla «Storia del Partito comunista (bolscevico) dell’URSS» pubblicata in Russia ai tempi di Stalin, in cui Stalin dominava ogni pagina, e tutto si risolveva in una esaltazione della «linea» staliniana. Noi siamo stati in Unione Sovietica ai tempi in cui Stalin era ancora vivo. C’erano statue di Stalin, fotografie di Stalin, quadri che rappresentavano Sta- lin in ogni angolo dell’immenso paese. Non si potevano girare gli occhi senza mandarli a cadere su qualche scritta gigantesca che inneggiava al velikomu Stalinu, «al grande Stalin». Oggi, in Cina, vi sono dovunque statue di Mao, ritratti di Mao, fotografici o dipin- ti, scritte che inneggiano a Mao, citazioni di Mao riprodotte in tut- te le dimensioni e su tutti i mezzi, legno o tela, carta o seta. «La prima condizione per diventare un autentico comunista, un vero militante comunista –si legge tra i documenti della Rivoluzione cul- turale- è amare il presidente Mao e credere fermamente nel suo pensiero». I bambini dell’asilo, come abbiamo narrato, cantano il nome di Mao nelle loro canzon- cine, lo ripetono nei loro giochi. Esiste allora in Cina un culto di Mao paragonabile al culto di Stalin di cui l’Unione Sovietica si è, per fortuna, liberata? Ecco una domanda a cui non si può rispon- dere semplicemente con un «sì» o con un «no». Prima di tutto va ricordato che il «culto della personalità» dell’epoca staliniana ha signi- ficato ben altro che quadri e ritratti: ha significato processi, deportazioni, fucilazioni, regime poliziesco, «purghe» violente. CHE COS’È IL PENSIERO DI MAO TSE TUNG TUTTI I LIBRI SONO DISPONIBILI NELLA BIBLIOTECA DELL’ISTITUTO biblioteca.iic.pechino@esteri.it 20 21 Ed ecco perché, nelle visite alle Comuni e alle fabbriche, termi- nata l’esposizione dei successi, ci sentiamo dire che «l’uno si divide in due» e ci viene mostrata l’altra faccia della realtà, cioè quella delle lacune, delle difficoltà, dei problemi non risolti. Oppure, per riassumere una esperienza di lotto contro le inondazioni e la volontà di non desistere dai tentativi di domare il fiume, ci sentiamo dire che «il soggettivo crea l’oggettivo». Spesso, nel discorso, la citazio- ne non è più presente come tale, ma come una riflessione, quasi come un detto del senso comune: «bisogna lottare contro il cielo, la terra e i nemici di classe, essere preparati alle calamità naturali e a una guerra»; «il passato deve servire il presente, le cose stra- niere la Cina». A questo livello il «pensiero di Mao Tse Tung» è già uscito dai libri, dai gruppi di stu- dio: serve per prendere decisioni, per fare un bilancio di attività, per chiarire i problemi da risol- vere. È uno strumento operativo, maneggiato da milioni di uomini che si sforzano, a diversi livelli di consapevolezza, di «rivoluziona- rizzare la propria ideologia». Ed è certamente questo cui mirava la rivoluzione culturale ponendo tra i suoi obiettivi principali quello di «trasformare la mentalità» della gente. Mao e Confucio Visto dalla Cina, nella vita di ogni giorno, il «pensiero di Mao Tse Tung» è proprio questo: un tentativo – di grandi proporzioni e di notevole intensità - di sostitu- ire alla mentalità tradizionale una mentalità nuova, alle vecchie idee nuove idee, ai vecchi atteggia- menti verso la realtà atteggiamen- ti nuovi. Il cinese classico crede- va, con Confucio, che «ricevere dottrine differenti dalle antiche è nocivo», che «pietà e obbedienza sono le radici dell’umanità». Ma il «pensiero di Mao Tse Tung» gli dice che «bisogna pensare con audacia, parlare con auda- cia, attuare con audacia». Per il cinese di Confucio l’attività po- litica, l’iniziativa, erano riservate all’imperatore e ai suoi funziona- ri, il «pensiero di Mao Tse Tung» insegna, al contrario, che «non ci sono limiti alla energia creatrice delle masse». L’antico fatalismo deve cedere il posto alla fiducia nell’attività umana: «il soggettivo crea lo oggettivo». Sono pensieri e atteggiamenti che arrivano in Cina di molto lontano. Arrivano dall’Europa, dal pensiero europeo di Marx e di Lenin. Se il risveglio del Giappone è avvenuto sotto il segno – europeo - del capitali- smo e dell’imperialismo, quello della Cina avviene sotto tutt’altro segno. Naturalmente sarebbe semplicistico parlare di una «oc- cidentalizzazione» della mentalità cinese (che sarebbe l’altra faccia della «sinizzazione del marxi- smo»). Il «pensiero di Mao Tse Tung» non è una traduzione: è una rivoluzione. Grazie ad esso la Cina non diventa soltanto, per il resto del mondo, un interlocutore «moderno»: diventa invece un in- terlocutore capace di dare un suo contributo autonomo e originale all’avvenire del pianeta. E questo è un fatto molto più importante, più duraturo e più denso di conse- guenze del «culto». La propaganda cinese parla qualche volta un linguaggio in- genuo e forse ha favorito, senza volerlo, la diffusione in occidente della strana idea che i cinesi si servano del «pensiero di Mao Tse Tung» per fare miracoli da vite dei santi. La propaganda contraria ha ingigantito questo spunto, per ridicolarizzare, per impedire di L’AUTORE: Gianni Rodari (Omegna, 1920- 1980) è stato scrittore e pedagogi- sta italiano. Aveva viaggiato in Cina da semplice turista. Non era, né pre- tendeva di esserlo, un sinologo, ma un testimone. capire. Le cose, viste dalla Cina, sono infinitamente più serie del- la propaganda e i cinesi hanno pienamente ragione quando si mostrano convinti di possedere nel «pensiero di Mao Tse Tung» - «culto» a parte - un eccezionale strumento di progresso. Gianni Rodari da Turista in Cina (raccolta di dieci articoli del servizio sulla Cina all’indomani della Rivoluzione culturale, apparsi su Paese Sera nell’autunno del 1972). TUTTI I LIBRI SONO DISPONIBILI NELLA BIBLIOTECA DELL’ISTITUTO biblioteca.iic.pechino@esteri.it sembra solo un aspetto della questione: sostengono i cinesi che l’applicazione creativa del marxismo–leninismo alla realtà cinese ha portato a uno sviluppo universalmente valido della teo- ria. Noi vogliamo dire solo della nostra esperienza diretta. Viaggiando in Cina, conversan- do con moltissime persone, in am- bienti diversi, di città o di campa- gna, da Canton a Pechino, infinite volte ci siamo sentiti citare questo o quel punto del «pensiero di Mao Tse Tung». Potremmo addirittura stendere, rivedendo gli appunti di quelle conversazioni, un catalogo delle citazioni preferite: «contare sulle proprie forze», «la donna sostiene la metà del cielo», «fare la rivoluzione e stimolare la produzione», «bisogna scoprire, inventare, creare, progredire», «bisogna pensare con audacia, parlare con audacia, attuare con audacia», «bisogna scoprire la contraddizione principale», «l’uno si divide in due». Queste ultime proposizioni appariranno singolari a chi non abbia qualche familiarità con la dialettica. Ma i cinesi le usano a ogni pie’ sospinto. E le usano in modo tutt’altro che rituale. Nella scuola per sordomuti di Pechino un otorinolaringoiatra avrebbe certamente dato un balzo sulla se- dia sentendosi dire da un soldato che, per curare i ragazzi, bisogna- va prima «scoprire la contraddi- zione principale». Egli avrebbe forse chiarito a quel soldato, senza mezzi filosofici, che spesso i muti sono tali solamente perché sono sordi, e non perché siano privi di un apparato adatto alla parola. Ma il soldato enunciava questo fatto in termini di dialetti- ca: «la contraddizione principale è quella tra la sordità e l’udito». Del resto, perché quel soldato e i suoi compagni si erano messi con tanto entusiasmo a occuparsi dei sordomuti? Perché avevano studiato lo scritto di Mao «Servire il popolo», dedicato alla memoria del soldato Chang Szu-teh che, dopo aver partecipato alla Lunga Marcia ed essere stato ferito in battaglia, era morto per il crollo di una carbonaia, sulle montagne di Ansai, mentre aiutava i contadini a fare il carbone. Quei soldati, durante la Rivoluzione culturale, avevano deciso di «servire il po- polo» curando i sordomuti. «Servire il popolo» è uno dei «tre articoli più letti» di Mao Tse Tung: gli altri sono «In memoria di Norman Bethune» e «Come Yu Kung rimosse le montagne». Da questi tre articoli decine di mi- lioni di cinesi hanno cominciato lo studio del «pensiero di Mao Tse Tung». Poi, a milioni, sono passati a studiare «gli articoli filo- sofici», in cui sono compresi i due famosi saggi sulla contraddizione. L’altra faccia della realtà TUTTI I LIBRI SONO DISPONIBILI NELLA BIBLIOTECA DELL’ISTITUTO biblioteca.iic.pechino@esteri.it 22 23 Nel maggio 1989, alla pre- sentazione di una raccolta di suoi racconti tradotti in italiano, Zhang Jie disse che in Cina, per quanto riguarda la democrazia e la libertà, i settant’anni trascorsi dal movimento del 4 Maggio sono stati inutili, ed è necessario ricominciare daccapo. Disse pure che a Mao Zedong non si può perdonare di avere umiliato gli scrittori davanti ai contadini. Sono due affermazioni coraggiose e significative: dietro quelle poche parole è sottintesa e si riassume una costante che nelle pieghe della mente è durata due terzi di secolo fra gli scrittori cinesi, nonostante la diversità dei loro orientamenti. Solo con le ul- time generazioni quella costante comincia ad apparire logora come un vecchio abito. Il 4 Maggio – con quanto l’espressione reca in sé di mitico – è il primo punto. Quali parte del ceto medio in formazione, gli scrittori cinesi fecero proprio le concezioni evo- luzionistica e progressista. Per- duta la vecchia identità, e prima ancora di sapere definire se stessi, a partire dal secondo decennio del Novecento i letterati optavano per l’uscita dell’universismo e inse- rivano il proprio paese in quello che appariva il contesto della sto- ria mondiale – ed era, in concreto, il quadro delle visioni del mondo dominanti nel corso dell’ultimo secolo fra i presunti loro omolo- ghi europei. Il motivo ora centrale – la democrazia – si innestò sulla ricerca, in corso già da decenni, del mutamento nel rapporto peda- gogico fra intellettuali e popolo, quale si era andato configurando dall’alta antichità e si era perfe- zionato nella società gerarchica, a un tempo universale-unitaria e divisa: il popolo (contadino) illetterato produce la ricchezza e nutre i letterati, che lo governano e lo educano a valori comuni. Fra i valori primari a tutti incul- cati stavano appunto la gerarchia e la separazione, l’obbedienza e la sottomissione indiscusse del governato-lavoratore-incolto al governante colto. Era inesistente l’incontro in termini di parità fra i contadini e i colti, braccio di potere civile a fianco dell’impe- ratore centro del mondo; come non esisteva qualcosa di simile all’appartenenza a una nazione comune. C’era solo l’incontro fra categorie, settori della società. La funzione dei letterati era allora di mediatori, nell’universo che era l’impero: ridurre le contraddizioni e il disordine, contenere il bar- barico scatenarsi delle passioni, in vista di una unità equilibrata, la grande pace. (Che si rovescia- va nel suo contrario, per alcuni eterodossi, nei momenti di con- testazione dell’esistente, specie nei periodi di crisi, e nella sfera religiosa buddhista o delle grandi utopie). Anche dove l’opera d’arte si apriva alla rappresentazione lirica o drammatica dell’irrazionale e dell’irreale, della morte e del so- gno, non appartenevano comun- que agli analfabeti discendenti da generazioni di analfabeti, soggetti mutilati di quella che Lu Xun chiamò «Cina muta», né la lingua della tradizione colta, né il suo linguaggio raffinatissimo e indi- retto, dove il taciuto ha uguale o maggior peso del pronunciato. Gli scrittori che ripudiavano la struttura e i costumi tradizionali tentarono di fondare una «nuova cultura», una nazione di uomini e donne, vecchi e giovani, capaci di autogovernarsi in libertà e uguaglianza. Fossero riformatori liberali o rivoluzionari comunisti, erano mossi ugualmente dall’en- tusiasmo utopico e avanguardi- stico e da una fede illuministica nella possibilità dell’incontro fra colti e incolti. Miravano all’uscita dalle «tenebre» del dominio (una cultura definita di «cannibali- smo») e, nel popolo contadino, dalle «tenebre» dell’ignoranza, della superstizione, del permanere di pratiche magiche. Intendevano liberarsi dai vincoli della tradizio- ne per entrare nella «modernità», creando una letteratura nuova, che rispecchiasse rapporti inediti fra gli esseri umani e fra i diversi popoli. Dominava l’ idea di dover procedere a una evoluzione o rivoluzione nazionale e moder- nizzatrice, che ricalcasse la via già percorsa dai paesi europei durante l’Ottocento, sulle orme della rivoluzione francese e della rivoluzione industriale, che ave- vano segnato la condizione di in- feriorità della Cina nei confronti dell’Europa. Quella visione del mondo tro- va però il suo limite proprio nel rapporto reale fra classi dirigenti e classi lavoratrici; e ancor più dove l’Europa incontra le altre civiltà non europee e, anziché considerarle semplicemente come altro da sé, presume invece che corrispondano a stadi della storia d’Europa precedenti l’era moder- na. Dalla seconda metà dell’Otto- cento alla prima del Novecento questa concezione si associa al dogma del primato dell’industria – comune ai portatori di ideolo- DAI «LUMI» ALLA RICERCA DELLE RADICI: ANNI VENTI-OTTANTA TUTTI I LIBRI SONO DISPONIBILI NELLA BIBLIOTECA DELL’ISTITUTO biblioteca.iic.pechino@esteri.it gie urbane di colorazione tardo- borghese e proletaria-socialista. Il grado di industrializzazione di una società diventa la misura del grado di civiltà e della qualità della cultura. L’evoluzione nel tempo delle società europee da agrario-artigiane a manifatturiere e industriali, fino ad altamente industrializzate (o «moderne») viene fatta coincidere con un progresso qualitativo assoluto e lineare, e con un modello unico e universale. Così anche la diversità cinese (vissuta a lungo dai cinesi stessi come superiorità, e nel corso dell’ultimo secolo come umilia- zione) è assunta e definita dagli occidentali conquistatori come in- feriorità, e più precisamente come arretratezza. Anche scegliere l’imitazione di forme già definite, comprensibili solo alla ristretta cerchia di nuovi letterati e ad una frazione della popolazione urba- na, equivale allora a mettersi in posizione di subalternità. D’altra parte, forme e generi «moderni» restano estranei ai contadini, che hanno subito la cultura delle vec- chie classi dominanti in condizio- ni di subalternità e per distaccar- sene non possiedono gli strumenti di cui dispongono gli intellettuali. L’introduzione della cultura euro- pea può essere per loro soltanto la voce dei nuovi padroni. Già negli anni Venti – contem- poranea allo stesso movimento del 4 Maggio ed ai suoi esiti – emerge la prima disillusione sulla «modernità» e sulla civiltà dell’Occidente. Oltre che nelle discussioni filosofiche in campo internazionale sulla specificità dell’Oriente e dell’Occidente (che anticiparono le definizioni di Erich Fromm – contare per quello che si è o per quello che si ha), gli effetti della disillusione sono evidenti, fra l’altro, in alcune fra le maggiori personalità della cultura del tempo, come Liang Qichao (1873-1929), Wang Guo- wei (1877-1927), Lu Xun (1881- 1936). L’adesione a una ideologia buddhista più schopenhaueriana che classicamente cinese non sal- vò il secondo da una inclinazione tragica che lo condusse infine al suicidio. Mentre nelle opere di Lu Xun l’ottimismo illuministico della volontà si accompagna al veleno nei confronti delle ideolo- gie della modernità non meno che della tradizione cinese, senza nes- suna illusione: una contraddizione insostenibile, se non fosse nutrita di taoismo e non si risolvesse nel- la perfezione ironica della scrittu- ra. La disillusione però è presente anche fra i politici rivoluzionari, tanto da pesare negli orientamen- ti successivi di tutta un’ala del comunismo cinese. L’ottimismo emersoniano di Li Dazhao è pure la rivendicazione piena di una specificità del popolo cinese Luxun TUTTI I LIBRI SONO DISPONIBILI NELLA BIBLIOTECA DELL’ISTITUTO biblioteca.iic.pechino@esteri.it 24 25 dizione proletaria dà al romanzo Luotuo Xiangzi una forza rivolu- zionaria sconosciuta alla lettera- tura paternalistico-illuminata, che piange sulle disgrazie e disegna a forti tinte l’oppressione subita dai poveri, o a quella trionfalistica con i lavoratori eroi positivi. Dispute e contrasti celano una difficoltà più profonda, per gli appartenenti al ceto colto nel suo insieme: trovare una funzione nel contesto rivoluzionario, che sem- bra annientare il ruolo che non solo era stato il loro nella tradizio- ne passata, ma si era riproposto proprio nel ripudio di quella ere- dità. Il racconto Zai yiyuanzhong di Ding Ling rappresenta con efficacia quello stato d’animo e – pur nella raggiunta maturità della scrittura – rivela una continuità con le opere degli anni Venti della stessa autrice, la stessa impronta di frustrazione neomandarinale. Sarà proprio la presenza di una nomenklatura politica a offrire ai letterati un ruolo, per quanto subordinato e tormentato, che la rivoluzione sembra escludere. Non c’è soluzione di continuità fra i primi decenni della Repub- blica Popolare e i periodi prece- denti di guerra e di guerre civili. Gli uomini della «nuova cultura» degli anni Venti e i loro eredi si collocano dentro la ricostruzione del mandarinato, che la presenza dell’Unione Sovietica facilita nella Cina del Guomindang, e la «copia» del socialismo russo promuove nei primi anni della Repubblica Popolare. La coopta- zione nella «modernità» dell’Oc- cidente fonda per essi ancora uno stato di privilegio e di differenza. Sbattuti fra obbedienza-identifica- zione e dissenso e rivendicazione di libertà individuale, condivi- dono con le burocrazie di partito (Guomindang o Pcc) le ideologie progressiste e modernizzatrici e l’appartenenza al ceto superiore (per cultura e potere, e funzione di avanguardia). Non sanno uscire dalla figura tradizionale del letterato al servi- zio del popolo, e con esso stabili- scono un’alleanza di facciata. Ma tutto quello in cui ripongono il proprio onore – levarsi al di sopra dell’incultura primitiva attraverso i lumi della scienza e il potenzia- mento dell’identità individuale – li induce a perpetuare orgogliosa- mente la separazione. La mozione del 4 Maggio si rovescia nel suo contrario: essi finiscono per guar- dare alle immense masse analfa- bete e semiaffamate come a un ostacolo insormontabile alla piena esplicazione delle loro capacità più alte e all’ingresso proprio e del paese, da pari, nella comunità internazionale. Nella Cina degli anni Sessanta era cominciata a maturare una consapevolezza circa i limiti dell’autoreferenzialità dei colti, ma fra minoranze ristrette, e in modo confuso o dottrinario. Il proposito dell’alternativa era trop- po intrecciato alla conservazione, e l’assunzione del punto di vista degli alienati ancora troppo intrisa di giacobinismo. La condizione paradossale dei letterati (porta- tori di coscienza delegittimati) si innestava sul paradosso della ri- voluzione culturale, che chiedeva l’autogoverno dei soggetti contro l’establishment (i dirigenti del partito, le autorità accademiche...) in nome di un sostanziale ed estremo populismo (il popolo che si autogestisce in prima persona, i medici scalzi, i semincolti all’uni- versità...); ma che, nello stesso tempo, chiamava a ribellarsi un soggetto (ancora?) troppo debole, disegnato da un mito pur sempre illuministico. Ne era risultato, all’interno delle istanze contestatrici, il cozzo fra il populismo contadi- no «antimoderno» e il laicismo iconoclasta della sinistra stu- dentesca e operaia di Shanghai, Wuhan, Shenyang: l’uno e l’altro (l’uno contro l’altro) per un verso conservatori, e per l’altro rivoluzionari. La sola a prevalere politicamente era stata ancora una volta la burocrazia, nei suoi schieramenti opposti e complici. Gli eventi della rivoluzione culturale (1966-68) e degli anni successivi fino al 1976 sono rimasti per così dire estranei e quasi incomprensibili agli scrit- tori delle generazioni anziane e intermedie, che non hanno saputo darne un’interpretazione qualsia- si. Quando, morto Mao Zedong, riassunse la pienezza del potere, il settore paternalista e industria- lista della burocrazia approfittò della persecuzione subita da un gran numero di scrittori da parte della fazione sconfitta: consentì che tornassero al loro lavoro, in alcuni casi li cooptò in posizioni politiche dirigenti, in questo recu- perando la tradizione mandarina- le; inoltre offrì loro l’illusione di una possibile libertà di pensiero e di espressione, concomitanti con la riassunzione di un ruolo sociale privilegiato. Le generazioni più anziane di letterati, e in parte quelle intermedie, nutrirono que- sta illusione perché continuarono a credersi persone «speciali», con doveri e diritti al di sopra dei co- muni mortali. La disgrazia subita, dalla campagna contro i «destri» del 1957 agli attacchi durante la rivoluzione culturale e negli anni successivi, interferì in questa convinzione e accrebbe la confu- sione, ritardando il chiarimento. Una volta «liberati», la loro visuale si trovò limitata, e come loro stessi o i loro padri avevano raccontato di sé, lamentando l’op- pressione patriarcale e l’infelicità dell’anima, presero a narrare nuovamente di sé e a piangere sui torti subiti o sull’incomprensione fra i due sessi. Furono i comuni- sti sopravvissuti fra i padri che TUTTI I LIBRI SONO DISPONIBILI NELLA BIBLIOTECA DELL’ISTITUTO biblioteca.iic.pechino@esteri.it contadino; mentre si dichiara marxista, Li si rivolta contro la centralità della cultura europea e contro il progressismo legato alla sopraffazione dei paesi in- dustrializzati. Ha inizio qui la contraddizione fra l’adesione alla rivoluzione operaia internazionale e il populismo contadino, che accompagnerà Mao Zedong per la vita intera, e che avrà riflessi permanenti nel campo letterario. Il secondo punto è l’onore degli scrittori e l’autodifesa della corporazione. Si riproduce il pa- ternalismo legato alla convinzione di essere persone «speciali», al di sopra degli altri e la cui libertà va difesa non perché esseri umani e cittadini ma perché scrittori: «più uguali» degli altri, portatori di una missione. L’idea, già fondata al tempo di Sima Qian, restò propria di un contesto mandarinale – dove l’opera letteraria era stata spesso sentita come supercompenso al fallimento o all’emarginazione in politica; e si è rinnovata nel con- testo del socialismo autoritario, dove i ceti colti sono stati conce- piti come «braccio spirituale». La superbia degli scrittori è legata pure all’autopromozione del ceto medio in crescita, di cui si considerano esponenti, fino a identificarvisi. Così fra gli anni Venti e i primi Trenta essi diven- gono più volte i primi protagonisti della loro opere. Nell’intimistico- veristica rappresentazione di sé comunicano il sentimento di autoesaltazione e di frustrazione dominanti fra il ceto medio colto. L’autobiografismo è ad un tempo autobiografia di classe, con note- vole consapevolezza. A questo debbono il successo, del tutto sproporzionato al loro valore intrinseco, romanzi medio- cri e ingenui come Jia di Ba Jin, o il sociologicamente interessante Ziye di Mao Dun. L’autobiografia si solleva a toni un po’ più alti quando è sorretta da una ricerca di forma e vuole un suo luogo in un contesto internazionale, influenzata dal decadentismo d’inizio secolo, europeo e special- mente giapponese. La ricerca di una via d’uscita «rivoluzionaria» si fonde col rimuginare morboso (il ben noto Shafei nüshide riji di Ding Ling), fino allo sprofondare adolescenziale, alla metafora della masturbazione (l’ancor più famoso Chenlun di Yu Dafu). Ma l’autotormento delle anime belle è doloroso e trionfale come il martirio, quando i giovani istruiti adempiono la loro missione verso il popolo, frustrata quasi sempre dal conformismo ottuso di chi sta in alto e dall’ignoranza di chi sta in basso. Lo stesso motivo – lo strazio per il sacrificio incom- preso del giovane intellettuale rivoluzionario – ispira Yao di Lu Xun, un capolavoro nella brevità, nell’estraniazione (dove l’auto- biografismo è azzerato), nella co- scienza del tragico: la resa infine all’elementare e universale dolore delle madri. La rivoluzione contadina che inizia nelle province centrali negli anni Venti e si approfondisce nel Nord-ovest durante la resistenza antigiapponese, per estendersi infine all’intera Cina, incrocia la strada di questi letterati, sembra coinvolgerli. Corre un filo da Shanghai a Yan’an e poi, durante l’occupazione giapponese, da Chongqing a Yan’an. Quella che, nata come rivoluzione di avan- guardie operaie e intellettuali ur- bane, si va trasformando in guerra di liberazione contadina conferma e sconvolge le visioni del mondo che si erano abbozzate negli anni Venti. Discussioni incessanti, su vasta scala, accompagnano gli sposta- menti degli scrittori e le loro rela- zioni fra quei tre poli, Shanghai, Yan’an, Chongqing. La disputa sulle «forme nazionali» continua quella sulla popolarizzazione. Si creano due fronti: da un lato i modernisti-progressisti (fra i quali Guo Moruo e Hu Feng), difensori a oltranza della tradizione e dei valori del 4 Maggio, del rapporto fra stadio di evoluzione della società e prodotti letterati, del ri- ferimento all’Europa quale luogo dove il passaggio a uno stadio «superiore» si è già verificato. Dall’altro lato i populisti , che considerano il bagaglio del 4 Maggio insufficiente per una comunicazione letteraria capace di arrivare alla grande massa del popolo e – sulla scorta anch’es- si di una ideologia non cinese, con accentuati tratti romantici – propongono di ricorrere alle vecchie forme della tradizione indigena, là dove offre prodotti meno aristocratici e più popolari, specie nel romanzo. Un vero e proprio scontro si ha poi a Yan’an all’inizio degli anni Quaranta fra la corporazione degli scrittori e quella dei politici. Un dato paradossale è nella sproporzione fra i contributi teorici ricchi e interessanti e le opere che dovrebbero stimolare o confermare i diversi indirizzi. È bensì vero che al tempo della Lega degli scrittori di sinistra, fra la fine degli anni Venti e l’inizio dei Trenta, c’era stato un impegno abbastanza diffuso a rappresentare la vita e soprattutto la miseria e l’oppressione del popolo. Ma, come ha osservato la traduttrice americana di Luotuo Xiangzi, J. M. James, il solo a scrivere «un romanzo proletario [...] nel linguaggio del popolo [...], il romanzo che la sinistra non è riuscita a produrre», è Lao She, non affiliato a nessuna società né scuola letteraria, e che nel corso delle dispute rispondeva con di- chiarazioni fuori tema, evasive e sibilline. L’avere rappresentato la destituzione intrinseca alla con- TUTTI I LIBRI SONO DISPONIBILI NELLA BIBLIOTECA DELL’ISTITUTO biblioteca.iic.pechino@esteri.it 26 27 lo di singoli individui colti – un medico, uno studioso di folklore, una studentessa... con la sicurezza dei loro «lumi», tanto più assoluta quanto più implicita; e il loro es- sere travolti e risucchiati e perire: non solo per eventi esterni ma con la perdita dei cardini interiori e dell’identità razionale, incom- patibile con la struttura del nuovo ambiente. (La discesa non ha luo- go per scelta politico-esistenziale ma per motivi banali di lavoro, economici o altri). Quello che parrebbe assurdo ha la meglio perché in un’altra dimensione è reale, anche per quanto riguarda i protagonisti, coinvolti nella suggestione del mondo magico. La scoperta di una realtà altra estranea alla sfera delle ragioni «moderne», ora vicina ora lontana e barbarica, misteriosa o familiare, è comune a molti dei narratori delle ultime generazioni. Nello splendido film di Chen Kaige Huang tudi (Terra gialla) non è un intellettuale a soccom- bere alla forza travolgente della massa contadina barbarica ma il giovane, anch’egli contadino (il soldato dell’Esercito popolare), che il partito aveva risvegliato alla coscienza e poi abbandonato, e che disperatamente «nuota con- trocorrente». In queste opere, come nel rea- lismo magico di Han Shaogong e di Mo Yan, la forma letteraria è ormai lontana dagli yang bagu, i «saggi a otto gambe stranieri» degli anni Trenta e Quaranta e an- che di molto realismo socialista; le radici cinesi sono riconquistate nel lessico e nella sintassi. Ma questo avviene attraverso la co- noscenza ormai digerita anche di tecniche occidentali, in una con- taminazione indipendente e libera da modelli. Anche nell’atteggiamento degli scrittori di fronte alla loro materia sembra chiudersi un ciclo: nel conflitto fra il contesto moderno- urbano e quello tradizionale- contadino, i valori positivi e negativi dell’uno e dell’altro si fronteggiano senza riuscire a inte- grarsi. Nella piega universalmente distruttiva assunta dalla moderni- tà, sarebbe ormai vano pensare di assumerne i «lumi» come rimedio per l’uscita dalle «tenebre» della tradizione. Risulta in ogni caso l’irriduci- bilità dei due poli a una unità pro- gressista. In Guiqulai (Ritorno) di Han Shaogong la divisione fra le due facce arriva a spaccare in due l’identità del protagonista. Mentre la dichiarazione di Mo Yan, in fine ciclo di Hong gaoliang (Sor- go rosso), a favore dei (barbari?) banditi contadini contrapposti ai (civili?) nipoti delle città può as- sumere valenze alternativamente rivoluzionarie e vandeane. Sotto questo aspetto, il ritorno alle radi- ci è anche un indice di come tanto la dialettica dell’illuminismo quanto l’opposizione Nord-Sud si estendano al contesto cinese, nella generale crisi del momento presente. La critica del progressismo e della modernità e il riferimen- to alle radici cinesi assumono toni più dialettici negli scritti di Acheng, grazie anche al dono dell’ironia congiunta alla passio- ne, specialmente nelle sue prime e, fino a oggi, maggiori opere, i racconti I tre re. In qualche modo, l’autore più lontano dal letterato tradizionale riassume una fun- zione di equilibrio e mediatrice. È assente nei suoi racconti l’im- magine di un popolo «barbaro», in accezione positiva o negativa. Egli rappresenta piuttosto, con affetto, la sofferenza e la miseria a volte estrema – miseria non solo materiale; anche ricchissima di valori e prodotta dalla sopraf- fazione del potere: così il taglia- legna del Re degli alberi. O la povertà estrema accompagnata da alte qualità intellettuali, come nei protagonisti del Re degli scacchi e del Re dei bambini. Con la stessa esistenza alienata il popolo denuncia perciò la fal- sità o l’illusorietà della ragione «moderna». La distanza fra lette- rati e gente comune si dissolve, non solo, ma il problema stesso dell’alleanza si azzera dove resta- no solo uomini: «gente volgare», popolo, ingegni superiori che conoscono il bisogno del cibo. Questa consapevolezza si dà for- ma nel ritorno alle radici taoiste, alla grande tradizione anarchica cinese; ma è tutt’uno con la rivol- ta giovanile contro la gerarchia mandarinale che soffoca il socia- lismo. La tradizione è recuperata perché i valori che si affermano non sono solo quelli trasmessi dall’antichità o sopravvissuti fra il popolo incolto. Edoarda Masi da Storie del bosco letterario: Letterati e scrittori in Cina (Libri Scheiwiller, 2002) TUTTI I LIBRI SONO DISPONIBILI NELLA BIBLIOTECA DELL’ISTITUTO biblioteca.iic.pechino@esteri.it seppero scrivere con maggiore dignità e una visione del mondo relativamente più aperta di quel lungo periodo tormentoso e della distruzione stessa della propria vita. E specialmente alcuni gior- nalisti coraggiosi, fra i quali Liu Binyan ha ottenuto il maggiore successo. Ma era in ogni caso una posizione di stallo entro la tradi- zione inaugurata col 4 Maggio. Nella ricerca che percorre gli anni Ottanta, in superficie le tematiche e gli orientamenti ri- petono in larga misura quelli del cinquantennio precedente. Conti- nua l’imitazione di moduli occi- dentali, per quanto più moderni – come il «flusso di coscienza» da Joyce, da parte di Wang Meng e di altri. È piuttosto diffuso un rea- lismo rivisitato, più fresco e meno artificioso. A volte si esasperano le opposte tendenze (populismo per un verso e individualismo per l’altro, modernismo contro anti- modernismo). Eppure per diverse strade si arricchiscono le scelte di scrittura, una maturità raggiunta nelle soluzioni formali prelude alla soluzione del dilemma fra letteratura tradizionale cinese e ispirazione all’Occidente. Nel corso del tempo, quanto più il contesto autoritario diventa forma politica del potere econo- mico (il cosiddetto «mercato») e vengono azzerati i valori sui quali possa fondarsi un qualsiasi «braccio spirituale», tanto meno chi detiene il potere economico e politico ha bisogno di ricorrere ai servizi dei letterati intesi come categoria. E se la ormai esautorata corporazione insiste a rappresen- tare la storia del paese e lo stato di cose presente attraverso la lente della propria storia (sia pure recente), l’effetto è nostalgico o anacronistico. Le esperienze della società «in sviluppo» mettono in crisi il con- cetto di modernità nel momento stesso del suo apparente trionfo. Il modernismo estremo si risolve già nella scrittura dell’assurdo. La svolta avviene con le ulti- me generazioni: sono le guardie rosse, stroncate manu militari quasi all’inizio della loro rivolta, abbandonate dallo stesso Mao Zedong, considerate un fattore esplosivo e perciò allontanate per anni dalle città; o sono i giovani colpiti dalle guardie rosse (spesso nelle persone dei loro genitori). Studenti ribelli o perseguitati degli anni Sessanta, repressi prima o poi dall’una o dall’altra fazione della burocrazia politica. E i loro fratelli minori, i «giovani istruiti» mandati in massa a lavo- rare in campagna dopo la scuola media, negli anni Settanta. L’esperienza della rivoluzione culturale e in seguito della mo- dernizzazione degradata si riflette nelle opere di questi scrittori. Non saranno più i membri di una ca- tegoria «speciale» né i portavoce di un ceto medio emergente. Non diversamente dai loro coetanei in generale, essi sono animati dalla protesta contro la società e riven- dicano l’autoaffermazione dell’in- dividuo. Dominano la rabbia, lo scontento, lo humour, il rifiuto (che è altra cosa dal disimpegno). Alcuni si stabiliscono nei villaggi, non più per essere rieducati ma per sfuggire alla carriera burocra- tica – rinnovando l’eremitaggio della tradizione. L’abbandono della figura neomandarinale si realizza attraverso la spoliticizza- zione. La discesa al popolo più o meno coatta degli anni Settanta ha fornito però a una generazione di cinesi colti la conoscenza della sfera immensa non urbana del loro paese, e consente agli scrit- tori di rappresentarla oggi senza gli abbellimenti e le falsificazioni della retorica politica, senza con- cessioni all’incontro dei contadini con gli istruiti urbanizzati maestri di laicità e di scienza. L’educazione modernizzatrice si è risolta nella disillusione tra- gica: il coinvolgimento totale con la vita del popolo ha scavato un abisso entro le coscienze stesse del ceto colto, privato del suo ruolo non più solo dagli inganni della nomenklatura ma anche dall’evoluzione verso la moder- nità e, ad un tempo, dalla falsità che è in essa, dall’impotenza dei «lumi» di fronte alla tradizione immobile e pur viva – radice che riemerge oltre le rivoluzioni bor- ghese e comunista. Che cosa sia il ritorno alle «radici», non meno controverso dall’appello alla modernità, non è facile da definire. L’espressione è di per sé ambivalente, giacché include il riferimento alla tradi- zione letteraria alta del passato – di epoche diverse nel passato – e il confronto radicale col popolo, al di là delle mediazioni politiche. In Su Tong elementi di ogni provenienza (anche occidentale) si fondono a riconquistare aspetti peculiari del racconto cinese, onirici e allucinanti con maschera realistica. Il Leitmotiv dei suoi testi migliori è la discesa al popo- Mao Dun TUTTI I LIBRI SONO DISPONIBILI NELLA BIBLIOTECA DELL’ISTITUTO biblioteca.iic.pechino@esteri.it L’AUTORE: Edoarda Masi, bibliotecaria a Firenze, Roma, Milano, docente di letteratura cinese all’Istituto universitario orientale di Napoli, ha soggiornato in Cina nel 1957- 58 (studentessa all’Universià di Pechino) e nel 1976-77 (presso l’Ambasciata italiana a Pechino e come docente di italiano all’Isti- tuto universitario di lingue estere di Shangai). Ha fatto parte della redazione di “Quaderni rossi” e di “Quaderni piacentini”. 28 29 Nella Pechino di allora la grande piazza di Tiananmen non c’era: c’era soltanto un immenso spiazzo davanti alla porta della Pace Celeste dell’antico Palazzo Imperiale e stavano costruendo i due grandi edifici ai lati, il Museo della Rivoluzione e l’Assemblea del Popolo. Pechino allora era nana, gialla, polverosa, la notte neanche una luce, ma quando calava il sole si accendevano fari potenti che illuminavano a giorno i cantieri di Tiananmen dove lavoravano in tre turni migliaia di operai. La città era silenziosa e buia dopo il tramonto perché non c’erano luci di vetrine a illumi- nare le strade, non c’erano fari di auto, nemmeno fanali di biciclette che frusciavano cieche negli hutong, i vicoli di terra battuta della città vecchia, ciechi anche loro perché non vi si affacciava l’occhio di nessuna finestra. Le case cinesi non hanno finestre, nessuno guarda fuori, si guarda soltanto dentro, protetti da mura basse e grigie che delimitano lo spazio delle corti interne e ripe- tono all’infinito il disegno della Grande Muraglia, rimandando di continuo all’ossessione della reclusione. Di tanto in tanto, come ferite nel corpo grigio delle mura, negli hutong si aprivano dei portoni dai battenti rosso lacca, segno che quella era una casa di ricchi; ma dietro al portone si scorgeva un altro muro grigio, il muro - schermo che sbarra l’ingresso per cui alla casa si accede unicamente aggirandolo da un lato o dall’al- tro. «Così gli spiriti maligni non entrano perché avanzano soltanto andando sempre dritti», mi disse una volta la nonna di una mia compagna di Beida, subito redar- guita dalla nipote perché propa- gandava «superstizioni feudali». Allora in Cina si parlava sem- pre così, non si diceva: «Nonna, ma piantala, che sciocchezze dici mai». No, si prendeva tutto molto ideologicamente. Andare al cinema era «svolgere attività cul- turale». Il sabato sera gli studenti erano sempre impegnati a svolge- re una qualche attività culturale, cioè andavano a vedere un film, al circo o a ballare. Il jargon ideologico, il linguag- gio astratto del «criptica e ingan- nevole, politicamente corretto», sovrastava la vita quotidiana, ma ancora non la impediva, solo che stavano sparendo la parole per dirla e gli spazi e i tempi per vi- verla. Si viveva una vita sospesa e irreale, la vivevano i cinesi, chiamando «lavoro volontario» le corvée alle quali si sottoponeva- no con stupore infantile, ancora convinti di abitare nel Giardino dell’Eden dove fiorivano Cento Fiori. E la vivevamo anche noi stranieri, imparando le tonalità di una lingua ancora più criptica degli ideogrammi che diligente- mente studiavamo ogni giorno: criptica e ingannevole, perché è già facile equivocare se, parlan- do, si confonde una tonalità con un’altra, figurarsi quanto più si equivoca se fatti e parole non combaciano. A ogni modo ci esercitavamo cantilenando monosillabi per ore e ore: ma lungo, la voce che segue come una linea retta, e vuol dire «mamma»; ma acuto, la voce che si impenna e vola in alto, e significa «canapa»; ma modulato, una tonalità che prima scende e poi risale, come se la voce segnasse una curva sonora, e allora il significato è «cavallo»; ma secco, la voce che piomba giù e si tronca senza strascichi, e così vuol dire «imprecare»; ma breve, come un sussulto smorzato, ed è una particella interrogativa e niente più. Ma ma ma ma ma... Nel grande parco di Beida si aggiravano studenti, insegnanti, funzionari del partito, e questi ultimi si distinguevano perchè al taschino della giacca avevano due penne stilografiche, mai una soltanto. Camminavano nei via- letti che inservienti spazzavano di continuo sollevando nuvole di polvere sottile, o pedalavano sulle loro pesanti biciclette con calma signorile, uomini e donne sempre in pantofole e pigiama, cioè con le scarpe nere di pezza e leggeri pantaloni e casacche, per lo più bianchi o celesti a fine estate; e sembrava proprio che tutti fossero davvero in pigiama. L’università assomigliava a un convalescen- ziario, uno di quei luoghi dove il tempo si consuma soltanto nell’attesa. Ma sfuggiva il senso di questa attesa, proprio come sfuggiva la città, inafferrabile a una prima, a una seconda, a una terza e a ogni perlustrazione. Nel ricordo mi sembra che quella città che non riuscivo ad afferrare, perchè non rispondeva a nessuna nostra idea di città, fosse bella, avesse per lo meno una sua dignità che ora ha perduto perché hanno abbattuto le grandi cinte murarie e le porte monumentali, non esistono più i vicoli polverosi e i grandi bazar come il Mercato della Pace Orientale, dove ci si perdeva per ore tra i banchetti delle cianfrusaglie, dei libri vecchi, delle strane cibarie: polli disseccati e piatti come sogliole, uova vecchie di cento anni che La città nana TUTTI I LIBRI SONO DISPONIBILI NELLA BIBLIOTECA DELL’ISTITUTO biblioteca.iic.pechino@esteri.it nascondevano sotto uno strato di calce e paglia il loro improbabile tuorlo verde e l’albume solidifi- cato marrone scuro, vagamente marmorizzato. Ora ci sono soltan- to grattacieli, shopping center e Mc Donald’s. Pechino era così, nordica, gri- gia, comunista. Tutti sembravano comunisti convinti, tutti si adatta- vano a vestire la casacca di ordi- nanza di cotone blu, ma a volte, sotto, si intravedevano i colori di giacche di seta imbottita. Un gior- no due studenti amici miei, non cinesi ma shangaiesi, come loro stessi si definivano scherzando – ma neanche poi tanto –, mi si pre- sentarono vestiti da occidentali, in giacca e cravatta. Ma portavano quegli abiti, che pure erano i loro, come se fossero costumi di un ballo in maschera. Per andare in città dall’uni- versità si prendeva un autobus, un’ora all’incirca di tragitto, e si arrivava al Giardino zoologico: si scendeva davanti all’Esposi- zione sovietica con i suoi mina- reti arabeggianti – forse quella era l’unica idea di architettura orientale che avessero i russi – e si andava a bere una birra o un bicchiere di kvas al ristorante Mosca. Dall’esposizione sovietica si saliva su un altro autobus, sem- pre pieno zeppo come il primo e come tutti gli autobus di Pechino, con la bigliettaia che a ogni fer- mata scendeva facendosi largo a gomitate e cacciava dentro a spin- tonate i nuovi passeggeri, dando gran manate dove capita capita e chiamando tutti «compagni». «Comprate il biglietto compa- gni!» si sgolava a ripetere. Infine si arrivava a via Wang Fu Jing, via del Pozzo del Prin- cipe Wang, vicino al Bai Huo Da Lou, il Grande Palazzo delle Cento Merci, a piedi si giungeva fino alla magnificenza della Città Proibita, al grande spiazzo di Tiananmen, la Porta della Pace Celeste, e quindi si riparava nel Caffè della Pace, dove si beveva davvero del caffè, chiaro come tè. La sala era illuminata da una tenue luce verdastra al neon: al centro c’erano dei tavolini alti e quadrati, tutto intorno dei séparé con dei divanetti e sempre, come sottofondo, aleggiava una vaga musica, dischi di musica occi- dentale, vecchie canzoni francesi e americane di venti, trent’anni prima, di prima della guerra, di prima delle guerre. Dicevamo scherzando che al Caffè della Pace si respirava un’atmosfera come di perdizione, ma ci andavamo spesso, forse perchè era l’unico angolo vaga- mente «occidentale» di quella sterminata città orientale e severa. Una volta, dopo essermi ag- girata per i vicoli e vicoletti del Mercato della Pace Orientale, decisi di tornare all’università in risciò. Com’era contento l’uomo del risciò. «Allora non sei sovietica, che bello, che bello», continua- va a dire e doveva sembrargli proprio un miracolo. Già, perché allora per la gente tutti gli occi- dentali erano sovietici e i sovie- tici avevano l’ordine dalla loro ambasciata di non prendere mai il risciò, perché non era da comuni- sti internazionalisti proletari farsi portare a forza di gambe da un altro comunista internazionalista proletario, cioè da compagno ci- nese. Così i tiratori di risciò – a Pe- chino tutti tricicli, non carrozzine con le stanghe e con l’uomo tra le stanghe che fa da cavallo – quando vedevano un occidentale sputavano forte per terra e se con uno sputo gli riusciva di colpire una scarpa di pelle sovietica era- no tutti contenti. Pelle sovietica? Ecco, questo era per l’appunto il mio nome cinese. Infatti trascrivevo poco elegantemente il mio nome usan- do l’ideogramma «pi» di pelle e l’ideogramma «su», lo stesso che si usa per Sulien che in cinese significa «Unione Sovietica». Non avevo scelto un nome cinese fiorito, come fanno quasi tutti gli occidentali – ma anche i papà e le mamme cinesi per i loro bambini – un nome tipo Nuvola Vagante o Gelsomino Fragrante. Pensavo che fosse più da Noi così: Noi si era contro l’esotismo da quattro soldi, Noi si guardava all’essenziale. Per quanto riguarda il risciò, non è che io trovassi naturale far- mi trasportare a forza di pedalate da un uomo. Appena arrivati a Pechino discutevamo ore e ore se fosse o non fosse da antimperia- listi e anticolonialisti, quali di si- curo eravamo, salire su un risciò. In genere eravamo tutti d’accordo che no, era meglio di no, anche se poi veniva fuori che tutti noi non sovietici – a Beida, agli inizi eravamo appena in cinque occidentali non sovietici e non di repubbliche popolari, logicamente soprannominati «i capitalisti» - o avevamo ceduto una volta alla tentazione o eravamo stati co- stretti a cedere a causa di avverse circostanze. Uno studente austriaco sostene- va che anche i tiratori di risciò do- vevano guadagnarsi da vivere. Se c’erano, argomentava, significava che soddisfacevano un’esigenza. Tuoni e fulmini. Allora intendi dire che se esistono le puttane – ce n’erano ancora a Pechino, poi non più, e adesso eccome se ce n’è – chi ci va assieme e le paga è meritevole perché dà loro di che vivere? No, non voglio dire questo. Sì, è questo il filo del tuo ragionamento. No, sì, sì, no, in- somma si continuava a discutere per ore. TUTTI I LIBRI SONO DISPONIBILI NELLA BIBLIOTECA DELL’ISTITUTO biblioteca.iic.pechino@esteri.it 30 31 Il sacco di Pechino Pechino ormai da troppi anni non è più la città di un tempo. Come Maurilia, una delle città invisibili di Italo Calvino, la cui grazia perduta si può godere soltanto osservando vecchie cartoline che la rappresentano com’era, anche Pechino, diven- tata metropoli, ha un’attrattiva in più: se fosse rimasta com’era, di attraente il visitatore avrebbe for- se trovato ben poco, ma adesso, attraverso ciò che è diventata, si può ripensare con nostalgia al suo passato. E infatti, la Pechino che acco- glierà i Giochi Olimpici è stata rifatta per l’80 per cento. Ma rispetto alla Pechino di quando? Non quella degli ultimi anni, le cui più recenti brutture edilizie resistono ancora nella misura del 40 per cento (si sono accorti che non basta mettere un tetto a pa- goda su di un grattacielo per farlo diventare bello, e così i più igno- miniosi sono stati abbattuti), ma quella degli anni Ottanta, dove già della Pechino dei precedenti decenni era rimasto ben poco, e della Pechino di ancora prima quasi niente perché, al di là delle mura che cingevano la magnifi- cenza imperiale, proibita persino alla vista dei comuni mortali, non c’erano che baracche, fango e polvere, come scriveva nei primi del Novecento Victor Segalen. Ma se rimane in piedi soltanto il 20 per cento degli edifici che formano un’antica città, si può ancora affermare che si tratta del- la stessa? Nel 1949, quando Mao dichia- rò la nascita della Repubblica Popolare Cinese, si sarebbe an- cora fatto in tempo a salvare la vecchia città, o perlomeno quello che più la rappresentava oltre ai monumenti, e cioè gli hutong, i vicoli, e le siheyuan, le case quadrate con la corte centrale, co- struendo magari una Pechino Due fuori dalle antiche porte. Ma no: le gigantesche porte sono state abbattute assieme alle mura che non erano concepite per la difesa ma traducevano una geometria cosmica, un grafico dell’ordine universale riprodotto in pietra e mattoni che precludeva una per- cezione dall’alto dell’insieme ur- bano frammentato da muri, porte, cortili, bastioni, pagode. Ora gli urbanisti pechinesi se ne rammaricano: questa vecchia Pechino sarebbe stata una mera- vigliosa attrazione per il grande business del turismo che si deve invece accontentare di vicoli rifat- ti come fossero scenografie lungo le quali ci si avventura, in un tour organizzato, seduti comodamente sul carrozzino di un risciò a peda- li. Come un tempo. Chissà perché oggi si vorrebbe fare tutto come una volta. Ma quale volta? In quale Pechino? Come si fa a par- lare di una città che non c’è più, che svanisce giorno dopo giorno e che tuttavia ambisce a essere città eterna, quintessenza della cinesi- tà? Purtroppo, di tutte le strutture urbane del passato i nuovi ricchi pechinesi ne stanno rivalutando una: i muri. In periferia sono sorte più di una trentina di aree residenziali protette, un territo- rio nel territorio inventato dagli operai immobiliari, cittadelle battezzate con nomi esotici e sug- gestivi come «California Dream», «Lido Plaza», «Villa Beach»... Sono quartieri composti da case di lusso a più piani o da ville con giardino, protetti come fortezze da alti muri coronati da filo spina- to; ai cancelli sorveglianti armati montano la guardia giorno e not- te; dentro si vive nel verde, c’è la scuola per i bambini, la palestra, la piscina, un supermercato... tutto insomma. I poveri stanno fuori da queste nuove Città Proi- bite mentre, ritirandosi dietro un muro, i ricchi sono convinti che sia possibile dimenticare la realtà esterna fatta di inquinamento e affollamento. Non sanno nemme- no cosa sia Pechino adesso e non rimpiangono di certo com’era. A voler essere apocalittici, potremmo dire che stiamo assi- stendo a un urbicidio. In centro, la magnificenza imperiale è stata conservata ma non è più imponente; viste dall’alto di un grattacielo o percorrendo una sopraelevata, solenni architetture come la Città Proibita, il Tempio del Cielo, l’Osservatorio astrono- mico, le Torre del Tamburo e il Tempio dei Lama, hanno perso il loro pathos originario. Un tempo dominavano monumentali su una città nana, ora soltanto loro sono nani in una selva di grattacieli. Resiste soltanto un gigante, l’acciaieria di Shougan, il cui smantellamento totale è previsto per il 2010, ma è significativo il fatto che a nord-ovest la città finisca dentro una fabbrica. Così hanno disposto, con somma in- congruenza, gli urbanisti di Mao, il quale voleva che la città fosse una giungla di ciminiere. Se si percorre infatti tutta la grande arteria della Lunga Pace che passa davanti a Tian An Men, a Zhongnanhai - la residenza dei vertici del partito, nuova Città Proibita - e se ancora si supera l’albergo delle Minoranze Nazio- nali e altri edifici pubblici ormai vetusti perché in stile sovietico, cioè solidi e cupi – i mattoni, non TUTTI I LIBRI SONO DISPONIBILI NELLA BIBLIOTECA DELL’ISTITUTO biblioteca.iic.pechino@esteri.it Comunque quella volta io presi il risciò e l’uomo del risciò era contento anche se si fece una bella sudata. Aveva un cencio di spugna bianca attorno al collo, la schiena nuda striata da gocce di sudore che colavano giù a rivoli. Di tanto in tanto si passava il cen- cio sulla faccia. Quando arrivammo alle mas- sicce mura della Porta Occidenta- le – che ora non c’è più, l’hanno buttata giù all’epoca della Rivo- luzione Culturale – cominciava a imbrunire e allora lui si infilò una maglia rossa perché, mi spiegò, aveva paura che il sudore gli si raffreddasse addosso. Dopo quella prima volta sono salita altre volte in risciò dicendo- mi che, dato che i cinesi lo face- vano, potevo farlo anch’io perché ero leggera, non mastodontica come una sovietica. Così mi giu- stificavo. E poi i cinesi ci salivano persino in due in un risciò, magari con parecchi fagotti pesanti. Allora era bello girare per Pechino in risciò e anche in bi- cicletta. Alla porta Occidentale, una sera, subito dopo il tramonto, ho visto arrivare una carovana di cammelli. Renata Pisu da“La via della Cina” (Sperling & Kupfer Edtri, 1999) L’AUTORE: Renata Pisu ha frequentato i corsi di lingua cinese e di storia della Cina moderna all’Università di Pechino fino agli inizi della R ivo luz ione Cu l tu r a l e . Da allora svolge la professione di giornalista con particolare attenzione ai problemi dell’Asia Orientale. È stata corrispondente de La Stampa a Tokyo e dal 1990 inviato speciale de La Repubblica. Ha anche ideato e condotto per la RAI trasmissioni radiofoniche e attualmente scrive su L’espresso, Repubblica e D. TUTTI I LIBRI SONO DISPONIBILI NELLA BIBLIOTECA DELL’ISTITUTO biblioteca.iic.pechino@esteri.it